A CURA DI

AVV. ANTONELLA ROBERTI

CEDU: SEGRETO PROFESSIONALE; IL DIRITTO ALLA SEGRETEZZA DELLA CORRISPONDENZA NEL RAPPORTO TRA AVVOCATO E CLIENTE (CEDU 17 DICEMBRE 2020, RICORSO N.459/18).

 Autore: Avv. Teresa Aloi

 

Il rapporto tra avvocato e cliente è, in linea di principio, un rapporto privilegiato, nel senso che è interesse generale che chiunque si rivolga ad un legale, sia in caso di assistenza per contenziosi di natura civile, penale o amministrativa, sia nell’ambito di una semplice richiesta di consulenza legale, possa aspettarsi che la loro comunicazione sia privata e confidenziale. Le conversazioni tra avvocato e cliente sono inviolabili e tale inviolabilità è garanzia del diritto di difesa. E’ proprio per questo motivo che tutti gli Stati hanno il dovere di avere norme chiare a tutela di tali diritti.

Questo è quanto ribadito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza del 17 dicembre 2020 (Saber c. Norvegia).

La vicenda sottoposta all’attenzione dei giudici di Strasburgo riguarda il caso del sequestro di uno smartphone ad un cittadino norvegese, vittima di un grave delitto, nel quale erano stati archiviati e-mail e messaggi scambiati da questi con i propri avvocati che lo difendevano in un altro procedimento in cui era stato a sua volta accusato di un grave reato (procedimento conclusosi nel 2019 con la sua assoluzione).

Tale soggetto si era rivolto, inizialmente, al Tribunale di Oslo, poi il giudizio si era svolto davanti all’Alta corte, la quale aveva stabilito che l’autorità giudiziaria che aveva effettuato la perquisizione ed il sequestro dello smartphone avrebbe dovuto vagliare tutti i dati, eliminando quelli protetti da privilegio professionale, che avrebbero dovuto essere restituiti al richiedente senza ulteriori controlli o essere cancellati, prima di estrarre copia informatica di quanto fosse contenuto nello stesso. L’esecuzione del sequestro è assoluta e si applica indipendentemente dal proprietario dell’oggetto. Di conseguenza, il fatto che lo smartphone in questione appartenesse al danneggiato e non, ad esempio, ad un imputato, non poteva portare ad altra conclusione.

Una decisione che, però, non ha avuto esecuzione. Da qui il ricorso alla Corte europea lamentando che, il fatto di consentire alla polizia di effettuare un esame introduttivo del proprio smartphone per filtrare i dati che potrebbero essere esenti dal sequestro, comporta una violazione dell’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali: “Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza.

Non può esservi ingerenza della pubblica autorità nell’esercizio di tale diritto se non in quanto costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, l’ordine pubblico, il benessere economico del Paese, la prevenzione dei reati, la protezione della salute o della morale, o la protezione dei diritti e delle libertà altrui”. Tale disposizione costituisce la norma fondante su cui, fin dal 1950, poggia la tutela della privacy in Europa.

La CEDU, nella sentenza in commento, ha nuovamente ribadito, confermando un orientamento consolidato, che l’art. 8 della Convenzione, laddove tutela, tra l’altro, il diritto al rispetto della propria corrispondenza, non solo richiede che la legge (nazionale) fornisca regole chiare e dettagliate sulle ingerenze di terzi nell’esercizio del predetto diritto, ma quando tale corrispondenza riguardi i rapporti tra i clienti ed i loro avvocati, impone di prevedere specifiche garanzie per tutelare la riservatezza delle loro conversazioni e, quindi, il segreto professionale.

Il diritto nazionale, nel contesto dell’attività di perquisizione e sequestro, deve fornire una certa protezione all’individuo contro l’interferenza arbitraria proprio attraverso il rispetto dei diritti indicati dall’art. 8 della Convenzione. Pertanto, il diritto interno deve essere sufficientemente chiaro nei suoi termini per dare ai cittadini un’indicazione adeguata delle circostanze e delle condizioni in cui le autorità pubbliche sono autorizzate a ricorrere a tali misure.

La perquisizione ed il sequestro rappresentano, infatti, una grave interferenza con la vita privata, il domicilio e la corrispondenza dei cittadini e, pertanto, devono necessariamente avere la propria fonte in una legge particolarmente chiara e dettagliata sul tema.

Va sottolineato, inoltre, che alla base del rapporto di fiducia esistente tra un avvocato ed il proprio cliente, vi è il segreto professionale, la cui tutela è il corollario del diritto del cliente a non autoincriminarsi. Questo presuppone che le autorità cerchino di dimostrare le loro accuse senza ricorrere a prove ottenute con metodi di coercizione o di oppressione in spregio della volontà della persona accusata.

Il rapporto privilegiato tra avvocato e cliente tutela l’integrità stessa della rappresentanza legale. Questo privilegio ha una logica nello Stato di diritto ed il diritto alla riservatezza nei rapporti tra tali soggetti è implicito nel diritto ad un processo equo ed alla rappresentanza legale in quanto incoraggia una comunicazione aperta e onesta tra avvocato e cliente. Se un avvocato non fosse in grado di conferire con il proprio cliente in un rapporto di piena fiducia la sua assistenza perderebbe gran parte della sua utilità. La segretezza, infatti, evita il rischio che il filtraggio delle informazioni possa essere effettuato con l’intento di consentire alla polizia giudiziaria di reperire prove da utilizzare nel processo contro di lui.

Per esempio, da un esame della normativa italiana in materia di accertamento delle imposte dirette e dell’IVA emerge l’assenza di una disciplina specifica rispondente alle prescrizioni della Convenzione europea.

L’art. 52, nono comma, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, accorda all’Agenzia delle Entrate il potere di estrarre copia dei supporti informatici delle imprese sottoposte a verifica fiscale, qualora tali imprese non consentano l’utilizzazione dei propri impianti e del proprio personale, ma non prevede alcuna garanzia per assicurare la riservatezza della corrispondenza memorizzata su tali supporti intercorsa tra i legali ed i loro clienti.

Inoltre, il terzo comma dello stesso articolo, richiede l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica o dell’autorità giudiziaria più vicina, solo per l’esame di documenti e la richiesta di notizie per le quali è eccepito il segreto professionale e a tal fine fa salva l’applicazione dell’art. 103 c.p.p. che, tra l’altro, vieta il sequestro di carte e documenti relativi all’oggetto della difesa, salvo che costituiscano corpo del reato, solo presso i difensori incaricati in relazione al procedimento.

La Corte di Cassazione penale, da parte sua, ritiene che il divieto operi solo per le comunicazioni scambiate tra i difensori ed i clienti che siano inerenti all’esercizio delle funzioni del loro ufficio, mentre tale divieto non si estende alle comunicazioni di diversa natura. La Corte ritiene che sarebbe la stessa autorità inquirente a dover verificare che tali comunicazioni avvengano nell’esercizio delle funzioni esercitate dai difensori per cui il segreto professionale sarebbe tutelato solo in via postuma grazie all’inutilizzabilità delle intercettazioni. Di conseguenza, tali autorità sarebbero di fatto legittimate ad apprendere il contenuto di tali conversazioni, anche quando abbiano ad oggetto la strategia difensiva del contribuente, negando ogni garanzia di riservatezza.

Per una tutela effettiva del segreto professionale non resta che invocare un’interpretazione della normativa nazionale che sia conforme all’art. 8 della Convenzione europea.

Nella sentenza in commento, la Corte europea dei diritti dell’uomo, nell’accogliere le doglianze del ricorrente e valutando come insufficienti le norme norvegesi al fine di proteggere il segreto professionale nel rapporto privilegiato tra difensore e cliente, ha ritenuto violato l’art. 8 della Convenzione, osservando come la mancanza di prevedibilità, nel caso di specie, dovuto alla mancanza di chiarezza del quadro giuridico ed alla mancanza di garanzie procedurali relative concretamente alla tutela del c.d. privilegio legale professionale, era già al di sotto dei requisiti derivanti dal criterio secondo cui l’ingerenza deve essere conforme alla legge ai sensi dell’art. 8, comma due, della Convenzione europea, non essendo, quindi, necessario per la Corte europea il controllo del rispetto degli altri requisiti previsti da tale disposizione.

 

Avv. Teresa Aloi,  Foro di Catanzaro