A CURA DI

AVV. ANTONELLA ROBERTI

L’EVOLUZIONE DEI RAPPORTI TRA DIRITTO INTERNO DIRITTO EUROPEO E CONVENZIONE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

Fonti e rapporti

Autore: Avv. Francesco Petrocchi

 

Negli anni il diritto comunitario, ora europeo ha assunto sempre maggiore ampiezza e profondità rispetto al diritto nazionale. Tanto che le interazioni tra le due sfere hanno con il tempo subito sempre maggiori connessioni nell’ambito delle quali si sono consumate le tensioni sulla primazia delle sfere giuridiche a contatto.

Ciò ha inevitabilmente comportato delle graduali limitazioni di sovranità nella normazione degli Stati nazionali che hanno codificato delle norme di ingresso del diritto europeo ma, ovviamente, ferma rimanendo la differenziazione delle fonti e la previa valutazione costituzionale, ove necessaria in ragione della specifica natura della stessa.

L’ingresso del diritto europeo nell’ordinamento italiano trova fondamento all’interno della Costituzione ed in particolare nell’art. 11 (“L’Italia consente in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni” ) e nell’art. 117 con cui, con la riforma ex l. Cost. 18 ottobre 2001 n. 3, la potestà legislativa viene limitata dal rispetto oltre che della Costituzione, dai vincoli derivati dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.

E’ opportuno al fine di delineare il sistema, partire dalle fonti di diritto europeo che hanno o meglio, possono, avere efficacia nell’ordinamento italiano declinandole in ragione della differente incidenza e modalità di efficacia.

I rapporti sono stati delineati e precisati dalle Pronunce da un lato della Corte costituzionale e dall’altro della Corte di giustizia dell’Unione Europea, in continua evoluzione, ma anche in maniera spesso contraddittoria ed oppositiva.

In origine il contrasto tra diritto interno e comunitario veniva risolto secondo il principio lex posterior derogat priori, ma tale metodo stabilito dalla Corte costituzionale con sentenza n. 14 del 1964 postulava implicitamente il medesimo livello gerarchico tra i due ordinamenti. Soltanto nel 1973 con il provvedimento n. 173 la Corte ha riconosciuto il primato del diritto europeo (allora comunitario) e la conseguente invalidità del diritto interno contrastante ma sempre entro i limiti dei principi costituzionali. E’ sorta così la teoria dei “controlimiti” in base alla quale il diritto europeo, pur essendo sovraordinato può trovare limite alla sua efficacia ove sia contrastante con i valori cardine dell’ordinamento costituzionale italiano.

La svolta in termini di primazia della fonte comunitaria avviene con il cd. pronunciamento “Granital” n. 170/1984 con cui la Corte costituzionale, auspice la sentenza della CGUE c 106/1977 affermativa della portata immediatamente operante della norma europea, supera il criterio della successione delle leggi nel tempo per individuare la operatività della stessa anche rispetto ai due differenti ordinamenti. Nasce la teoria della “prevalenza nella applicazione” della norma europea attraverso la disapplicazione o meglio inapplicazione della norma nazionale. Non si fa riferimento ad invalidazione o abrogazione, poiché ferma rimane la dualità degli ordinamenti e pertanto la eterogeneità non può determinare tali effetti. Il primato della norma europea può, invece, determinare la disapplicazione da parte del giudice della disposizione domestica. La inapplicazione, contrariamente al concetto di invalidità non esprime disvalore in termini di contenuto e a differenza della abrogazione non espunge la norma contrastante dall’ordinamento ma semplicemente non si applica, si sospende,  tanto che ove quella europea venisse meno, il disposto nazionale tornerebbe ad espandere la propria efficacia.

La sentenza “Granital” rappresenta la pietra miliare da cui si afferma senza più dubbio il primato del diritto europeo.

 

Le diverse fonti normative europee e la loro efficacia

Posto il principio, occorre procedere ad una disamina distintiva in ragione della fonte europea.

Occorre far richiamo in premessa, tra gli altri, agli artt. 288 e 291 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea  (TFUE) in cui si precisa che le competenze dell’Unione Europea si esercitano attraverso regolamenti, direttive, decisioni, raccomandazioni e pareri.

Si precisa altresì che il regolamento è direttamente applicabile negli Stati membri, mentre la direttiva individua rispetto al risultato da raggiungere, lasciando allo Stato membro la libertà di determinarsi rispetto a strumenti e mezzi.  

Parimenti vincolante è la decisione che può esercitare i suoi effetti anche rispetto ad un numero individuato di soggetti, se questi vengono precisati quali destinatari. Mentre non lo sono pareri e raccomandazioni.

Gli Stati membri adottano tutte le misure di diritto interno necessarie per l’attuazione degli atti giuridicamente vincolanti dell’Unione.

Relativamente ai regolamenti, la efficacia diretta dei medesimi impone al giudice la disapplicazione della norma interna in contrasto con lo stesso. Mentre la direttiva necessita di recepimento con norma interna

Vi può essere il caso di una  direttiva non ancora recepita con norma interna. Il giudice in tale ipotesi, o dovrà sollevare questione di costituzionalità e non potrà procedere direttamente alla disapplicazione della norma italiana in contrasto ma spetterà alla Corte stabilire la eventuale illegittimità della legge per contrasto con la direttiva e quindi con gli artt. 11 e 117 Cost. e la sua diretta efficacia.

Si può altresì porre il caso della direttiva “dettagliata” (“selfexecuting”) che, come tale, è direttamente applicabile e la differente natura è determinata non dalla forma ma dal contenuto, di modo che si ricade inevitabilmente nel campo della interpretazione con riguardo agli effetti. Il giudice nell’incertezza, solleverà la questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di giustizia dell’Unione Europea (CGUE).

Occorre altresì considerare, rispetto al tema trattato, che l’efficacia diretta dell’ordinamento comunitario può derivare non solo dagli atti legislativi, ma  anche dalle sentenze della Corte di Giustizia; effetto possibile poiché lo stesso è ispirato da contaminazioni di “civil law” e “common law” in ragione degli Stati membri che compongono l’Unione e della loro differente tradizione giuridica. Si può avere così il risultato di una giurisprudenza che è creatrice e non solo interprete della norma. E ciò avviene nel caso in cui la CGUE si pronunci su rinvio pregiudiziale: la sentenza prevale sulla norma interna se incompatibile.  Così come per le sentenze che risolvono questione di ordine generale e permanente (cc.dd. sentenze pilota come ad esempio le violazioni connesse al sovraffollamento carcerario).

Ove direttamente operanti le fonti europee, secondo la Corte costituzionale – Sent. 389/1989 – anche gli organi amministrativi sono tenuti alla disapplicazione, a conferma della diretta efficacia del diritto europeo sui cittadini.

 

La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea

Considerazioni a parte meritano agli atti considerati costituzionali o para costituzionali del diritto europeo, in particolare tra i Trattati, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE) o Trattato di Nizza.  E successiva e distinta  disamina occorre anche rispetto alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.  

Anche su tale versante si sono registrati e si registrano ancora differenti orientamenti che determinano orientamenti non univoci e contrasti, mai sopiti tra giurisprudenza e dottrina, fenomeno fisiologico data la “materia viva” su cui si opera.

La Carta di Nizza, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona ha assunto il medesimo  valore dei Trattati ai sensi dell’art. 6 del Trattato dell’unione Europea (TUE) e quindi è fonte di diritto.

Ma ha un carattere peculiare, ossia è contraddistinta da un contenuto tipicamente costituzionale e si pone dal punto di vista assiologico in maniera concorrente e potenzialmente alternativa alle Costituzioni nazionali generando possibili contrasti. Infatti ha quale contenuto essenziale la disciplina dei diritti e la tutela di essi appartiene ontologicamente alle Costituzioni e così anche a quella italiana.

A ciò si aggiunga che la Carta, ove  ritenuta come Trattato, di diretta applicazione susciterebbe contrasto con il principio di sindacato accentrato di costituzionalità della Corte  che, come tale, esclude la efficacia diretta delle norme di rango costituzionale.

Ne consegue che il giudice nazionale potrebbe essere tentato alla disapplicazione  della norma interna a favore dei principi della CDFUE o in ogni caso procedere, in ragione del contrasto, al rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE alla Corte di giustizia europea. L’effetto di tale percorso è la marginalizzazione del giudice costituzionale, anche ove il contrasto si palesasse con i diritti garantiti dalla Costituzione italiana in pari modo rispetto alla Carta.

In tale clima vede la luce l’indirizzo interpretativo della sentenza n. 269 del 2017 con cui la Corte ha rivendicato la priorità di giudizio per le questioni doppiamente pregiudiziali, ossia ove il dubbio di costituzionalità fosse relativo sia a principi costituzionali sia a principi della Carta.

Si tratta di un intervento profondamente innovativo e destabilizzante del quadro sedimentatosi sino ad allora. Infatti gli orientamenti precedenti avevano sempre ribadito l’obbligatorietà del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia (Così Corte cost. 207/2013, 48/2017, 111/2017) con la inammissibilità del ricorso alla Corte di giustizia ove fosse stato violato l’ordine di priorità.

La Corte rivendica a sé uno ius primi verbi  per assicurare una interpretazione in armonia con le tradizioni costituzionali degli Stati membri che pure sono richiamate come parametro dall’art. 6 TUE dall’art. 52 co. 2 CDFUE.

Tale presa di posizione, tesa a ristabilire equilibrio sul controllo e l’applicazione delle fonti normative, scontava il rischio di uno squilibrio opposto e di entrare in rotta di collisione con il riconosciuto primato del diritto europeo che consente al giudice comune di rivolgersi direttamente  alla Corte di giustizia, senza passaggio intermedio alcuno.

Si poneva, altresì, la questione della vincolatività del decisum e dell’ampiezza dello stesso, ovvero la sua applicabilità a quali fonti del diritto europeo. Anche in questo caso la posizione poteva essere foriera di sovvertimenti giuridici dei principi cardine, ad esempio ove la Corte avesse ritenuto il principio di sindacato accentrato e prioritario esteso anche alle direttive self executing, dando luogo a rischi di procedure di infrazione nei confronti dell’Italia.

La Corte ha, in estrema sintesi, riaffermato il proprio ruolo e in tal modo ridato centralità alla valenza dei valori e principi costituzionali italiani.

Già nella Sentenza 269/2017, la Corte ha al contempo “disinnescato” derive interpretative che la ponessero in aperto e insostenibile contrasto con il principio del primato del diritto europeo.

Ed infatti ha ribadito la libertà del giudice comune di sottoporre ogni questione ritenuta necessaria alla Corte di Giustizia e la facoltà, anche al termine del giudizio incidentale di costituzionalità, di disapplicare la norma che abbia superato il vaglio ove ritenuta contraria al diritto unionale. In tal modo il pronunciamento si appalesava come richiamo o raccomandazione e non obbligo, salvaguardando l’assetto normativo e l’integrazione e sovraordinazione del diritto europeo.

Così la priorità di giudizio appariva esclusivamente riferita alla Carta dei diritti in ragione della possibile omogeneità di contenuti con la Costituzione, da cui la necessità di non marginalizzare il Giudice delle leggi per i diritti costituzionali. In disparte restava la vicenda delle norme comunitarie comuni, in particolare quelle di diretta applicazione, non intaccate dall’orientamento nella loro efficacia diretta in ambito interno.  

Malgrado ciò rimanevano irrisolti alcuni dubbi potenzialmente laceranti tra i due ordinamenti.

 Il primo è se il ricorso pregiudiziale del giudice comune fosse limitato solo  agli aspetti non scrutinati dalla Corte oppure potesse involgere anche le ulteriori questioni già scrutinate.  Ed infatti testualmente la pronuncia faceva riferimento alla possibilità limitandola ad “altri profili”.

Il secondo è la individuazione dell’esatto campo di operatività della cd. doppia pregiudiziale e l’ambito di attrazione rispetto al diritto europeo.  In questo caso la Corte è parsa estendere i confini alle norme UE che partecipassero della stessa natura paracostituzionale della Carta.

Il terzo è relativo alla valenza del precetto in termini di “obbligatorietà” (come faceva ritenere una interpretazione testuale) o meno della priorità del rinvio costituzionale.

La impellenza e la rilevanza esiziale dello scioglimento di tali dubbi è stata fatta propria dalla Cassazione, sezione II, n. 3831/2018, che ha rimesso la vicenda alla Corte costituzionale. Anche perché nelle more la CGUE con Sentenza 20.12.2017 Global Starnet LTD C-32/2016 aveva già colto l’occasione per contrastare tale orientamento, in particolare ribadendo che il giudice nazionale può procedere al rinvio pregiudiziale anche sui medesimi profili di cui la Corte era già stata investita, senza che ciò determinasse pregiudizio all’ulteriore vaglio.

Sono, pertanto, seguite pronunce del Giudice delle leggi.

Relativamente alla priorità del rinvio ne è stata precisata la valenza in termini di opportunità e non di obbligatorietà, giustificandone espressamente il ricorso in ragione della tutela del principio del sindacato accentrato, fondamento dell’architettura costituzionale italiana ex art. 134 Cost. Così sent. n. 20/2019 relativa alla “direttiva privacy” , peraltro trasfusa in Regolamento, ma paralizzata dall’incidente costituzionale.  Sul punto la Corte fonda la sospensione della efficacia diretta di un atto europeo di diretta operatività, ritenendo che i principi della Direttiva partecipassero della stessa natura di quanto previsto nella Carta e, anzi, ne avesse costituito l’antecedente giuridico ed il modello di ispirazione. Così facendo, pur espandendo la priorità anche ad un atto diverso dalla Carta, lo ha ricompreso in sostanza nella medesima ratio.

Anche sul punto la Corte ha fugato i dubbi confermando che la questione pregiudiziale potesse essere sollevata anche su punti analoghi a quelli già esaminati e non soltanto su profili differenti. Così Corte cost. n. 117/2019 relativa al “diritto al silenzio” senza subire sanzioni in procedimenti amministrativi, ove l’obbligo di risposta avrebbe comportato la propria incolpazione. La questione ruota intorno alla  natura afflittiva di alcuni provvedimenti sanzionatori che, seppur amministrativi, partecipano di natura penale, con conseguente estensione dei diritti dell’imputato all’incolpato nel procedimento amministrativo. La CGUE, proprio su rinvio operato dalla Corte, mediante interpretazione conforme del precetto europeo (di cui la norma interna era esecuzione) ha riconosciuto ed esteso il diritto al silenzio anche nel caso in esame.

Tale indirizzo è stato confermato dalla sent. 44 del 2020. Oggetto della questione di costituzionalità era la legge regionale Lombardia 8 luglio n. 8 2016 che fissa quale requisito per accedere ai servizi di residenza pubblica un periodo antecedente alla domanda di almeno cinque anni di residenza anagrafica o svolgimento di attività lavorativa. Tale disposto secondo il giudice a quo contrastava con la direttiva 2003/109/CE sullo status dei cittadini di paesi terzi la quale dispone che i soggiornanti di lungo periodo godono dello stesso trattamento dei cittadini nazionali. In questo caso il giudice a quo ha rinunciato al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia mirante a chiarire la diretta applicabilità della norma europea ed ha sollevato questione di costituzionalità (peraltro il carattere self executing della direttiva era già stato chiarito da un precedente della Corte di giustizia).

La tendenza costituzionale, seppur formalmente ossequiosa e rispettosa, appare orientata a superare gli argini posti nel 2017 e ad attrarre il diritto europeo che partecipi in qualche modo della stessa natura della Carta o che comunque nei principi della stessa  trovi fondamento. Chiaro è che, a fronte di una ritrovata centralità, permane il rischio di intaccare al contempo il principio della supremazia del diritto europeo e la disapplicazione della legge interna contrastante.

Il punctum dolens che mantiene la Corte sulla difensiva è l’opinione contrastante che esiste sulla diretta applicabilità della Carta. Infatti a fronte di chi afferma che in materia di principi non possa prevedersi attuazione immediata, vi è chi sostiene – distinguendo principi e diritti – che sui secondi vi è applicazione diretta negli ordinamenti statali.

Tali divergenze derivano anche dai pronunciamenti non univoci della CGUE che, pur sostenendo la applicabilità della Carta solo nell’ambito diretto di applicazione del diritto europeo, ha altresì sostenuto la cogenza diretta del disposto giuridico anche rispetto a normativa soltanto strumentalmente connessa alla disciplina eurounitaria.  

Le tensioni si stanno sviluppando non solo in Italia ma in molte Corti degli Stati membri.

Va registrato sul punto, proprio in chiave di contestazione della supremazia del diritto europeo la decisione della Corte costituzionale tedesca del 5 maggio 2020. I giudici tedeschi, in materia di politica monetaria della BCE diretta a fronteggiare la crisi economica COVID -19 è giusta a contestare apertamente il pronunciamento della Corte di giustizia che aveva deciso la compatibilità del programma adottato con il diritto dell’Unione. La Corte tedesca giunge a sostenere che la sentenza emessa dalla Corte europea sarebbe stata adottata in violazione del principio di proporzionalità e come tale emessa “ultra vires” con conseguente inefficacia nell’ordinamento tedesco, facendo applicazione del controlimite.  I giudici tedeschi opinano che la violazione del principio di proporzionalità (quantomeno differente da quello che ne dà il diritto interno tedesco) determina un difetto di attribuzione. E’ chiaro l’effetto dirompente della posizione assunta dai giudici in una sorta di nazionalismo giudiziario con compromissione dei principi cardine del primato e dell’effetto diretto del diritto europeo. La incompletezza dell’iter costituzionale europeo provoca continui sismi giuridici in vista di un auspicato assestamento.

La parziale cessione di sovranità degli Stati membri fa residuare in ogni caso una parte di essa in capo agli Stati. Lo strumento per esercitarla e farla valere rispetto all’ordinamento europeo a preservazione di quello interno  è la contestazione da parte ella Corte costituzionale  del  superamento dei “controlimiti”. Una sorta di confine nazionale all’alveo europeo che si ritiene varcato ove il diritto europeo contrasti con i principi basilari, costituzionali italiani, teorizzata per la prima volta dalla Corte con la sentenza n. 183/973. E’ reazione oppositiva tesa a ricomprimere nel proprio letto il fiume che straripa. E’ l’extrema ratio del conflitto, in cui la Corte ritiene, in contrasto formale con i principi di primazia europea, la prevalenza della norma interna, espressione della identità nazionale costituzionale irrinunciabile ed inderogabile. La Corte riafferma e difende quello che Carl Schmitt definì il “Nomos della Terra”, l’essenza, lo spirito normativo che deriva dal Territorio, da uno spazio circoscritto in cui dimora un Popolo.  

Ma come riaffermare   la piena legittimità della norma italiana rispetto alla fonte europea e quindi la efficacia della prima rispetto a quest’ultima ? La Corte dovrebbe ritenere illegittima una norma  esterna al proprio ordinamento (quella europea) ma non potrebbe. Così  la Corte, nell’opporre il controlimite, si pronuncerà non sulla eventuale illegittimità del disposto esterno ma sulla norma interna, attraverso cui la fonte europea è stata recepita. Il giudizio si eserciterà sulla norma interposta di carattere nazionale.

E’ di tutta evidenza che la svolta costituzionale inaugurata dalla Corte con il pronunciamento 269/2017 tende altresì ad affiancare una metodologia differente nella elaborazione del diritto eurounitario che, se lasciata esclusivamente al rimedio dei “controlimiti”, inevitabilmente procederà “a strappi”.

Rivendicare la priorità nel pronunciarsi sui diritti comuni ai due ordinamenti  ottiene il doppio effetto di procedere dal basso alla elaborazione giuridica europea  e di prevenire contrasti traumatici. Chiaro è che pronunciarsi per primi inevitabilmente condiziona la seconda eventuale pronuncia sempre, come detto, possibile per la CGUE in ragione del ricorso del giudice comune. Del resto la priorità in Francia è stabilita costituzionalmente e in Austria per costante giurisprudenza e la CGUE chiamata a pronunciarsi sul tema, ha ritenuto tali previsioni compatibili con l’ordinamento europeo.

 

La Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo

La dottrina ha sostenuto e in parte ancora autorevoli voci ritengono che il disposto della Convenzione abbia diretta efficacia nell’ordinamento con conseguente disapplicazione della norma in contrasto, in ragione del valore costituzionale o para costituzionale del testo. Di fatto molte norme sono il precipitato di consuetudini internazionali come tali già direttamente applicabili. Inoltre l’art. 6 del Trattato di Lisbona ha disposto che “L’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. ”  anche se formalmente l’adesione non è mai avvenuta e quindi non si può parlare della Convenzione con fonte del diritto europeo.

Tale orientamento è stato smentito già  nelle prime pronunce costituzionali che hanno negato prevalenza applicativa alla CEDU sul rilievo della ratifica della Convenzione con legge ordinaria. Di talchè è stata sostenuta una equiordinazione rispetto alla norma interna (Cfr. Corte cost. 323/1989).

Con la modifica dell’art. 117 Cost.  del 2001 e l’introduzione dei vincoli derivanti “dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali” si è posta nuovamente la questione della diretta efficacia della CEDU attraverso la configurata porta d’ingresso costituzionale e dinanzi alla tendenza e tentazione dei giudici comuni di procedere alla disapplicazione del diritto interno.

La Corte costituzionale ha reagito negando la diretta applicazione ed il sindacato diffuso operato dai giudici in quanto gli obblighi internazionali hanno carattere vincolante solo ove definiti.

 Viene affermata la natura di “norma interposta” della Convenzione con obbligo di interpretazione in conformità alla medesima da parte del giudice.  Ove si ravvisi contrasto occorrerà sollevare questione di costituzionalità dinanzi alla Corte per contrasto mediato con l’art. 117 comma 1 attraverso il quale il parametro della Convenzione trova  legittimazione. Tale impostazione è peraltro stata condivisa dalla Corte di Giustizia che con la sentenza Kamberaj (24 aprile 2012) ha dichiarato  che il rinvio operato dall’art. 6 del TUE non impone al giudice nazionale in caso di conflitto la applicazione diretta della Convenzione con disapplicazione della norma interna.

Al Giudice è però imposto di uniformarsi alla interpretazione della Corte EDU, ma solo in caso di giurisprudenza consolidata o cd. “sentenze pilota” .

Sul punto si è registrato un apparente contrasto tra la Corte costituzionale e la Corte  Europea sul tema della confische per reati urbanistici (lottizzazioni abusive) in caso di assoluzione per prescrizione, ossia senza l’accertamento formale della penale responsabilità dell’imputato, con riguardo alla violazione dei principi del giusto processo ex art. 7 CEDU.  La Corte regolatrice italiana, malgrado ci fosse stata una pronuncia di senso inverso della Corte europea, ha ritenuto legittima in ogni caso la confisca, proprio in ragione della assenza di una interpretazione consolidata.

Infatti la Corte Edu con la sentenza “Varvara” aveva ribadito la necessità per la legittimità della confisca, provvedimento formalmente  amministrativo ma avente natura sostanziale di pena, di una dichiarazione di responsabilità da parte dei giudici nei confronti del destinatario della misura.

Successivamente, nel 2018, la Corte nella causa GIEM srl, è tornata sull’argomento oggetto della distinta interpretazione e campo di contrasto, per operare dei distinguo conciliativi.

Ribadisce il riferimento alla sentenza Varvara ed altresì la vincolatività delle sentenze della Corte, non distinguendo rispetto a singolarità o uniformità interpretative, con apparente obbligatorietà di uniformarsi dei giudici nazionali rispetto ai parametri interpretativi espressi. Così sembrando sconfessare il criterio enunciato dalla Corte costituzionale ancorata alla “consolidata giurisprudenza”.

Ad ogni buon conto, i giudici europei pur ritenendo le questioni sollevate   in parte compatibili con gli arresti  precedenti contrastati dalla Corte italiana, giungono ad una posizione mediana di avvicinamento e non di sconfessione.

 Ribadiscono che è necessario un collegamento psicologico con il fatto per la irrogazione della confisca e l’accertamento della responsabilità per la conformità all’art. 7 CEDU. Precisano, però, al contempo che tale accertamento non necessariamente deve coincidere con quello formale contenuto in una sentenza. Di guisa che non ritiene esserci violazione dell’art. 7 nel caso in cui non vi sia stato accertamento formale per intervenuta prescrizione con conseguente non luogo a procedere se lo stesso sia in sostanza comunque verificato nel corso del processo (in conformità a quanto ritenuto dalla Corte Costituzionale, apparentemente in contrasto con l’arresto Varvara); ribadiscono altresì, di contro, che nel caso in cui l’accertamento non sia in nessun modo scaturito o, per di più, le parti destinatarie della sanzione non siano state neanche parti nel procedimento, allora la violazione si configura.

Tale pronuncia dà il senso delle continue tensioni interpretative, sempre in divenire, e da un lato ne smorza alcune e dall’altro sembra foriera di promuoverne altre future, in particolare sui presupposti del venir in essere della necessità, da parte del giudice nazionale, di uniformarsi alle sentenze della Corte.

Al contempo, solleva dubbi, sulla reale applicabilità ai casi in esame del principio convenzionale e costituzionale, di non colpevolezza. Si è dinanzi ad un mancato accertamento della penale responsabilità con formale provvedimento di non luogo a procedere e in presenza di una sanzione di natura penale comminata all’imputato, formalmente non colpevole ma sostanzialmente punito.

Non sembra che, in questo caso, rispetto alla interpretazione restrittiva del giudice nazionale, la Corte abbia garantito quel “quid pluris” di tutela al singolo cittadino. Probabilmente lo ha fatto dalla differente prospettiva della tutele dell’interesse pubblico correlato alla effettività ed efficienza del sistema dello Stato. Ma al centro della Convenzione, in termini di tutela, dovrebbe rimanere l’uomo.

Siamo in una fase di transizione in cui la elaborazione giuridica, sempre legata tradizionalmente ad un Territorio Sovrano, è in parte disallineata ed esterna rispetto a questo. Per riprendere di nuovo Schmitt, potremmo sostenere che siamo di fronte ad una nuova combinazione di ordinamento e localizzazione, in ragione di nuovi eventi storici che, potrebbe portare in futuro ad un nuovo “nomos della terra”, quello europeo.