A CURA DI

AVV. ANTONELLA ROBERTI

LE SOCIETÀ PUBBLICHE E L’“IN HOUSE PROVIDING” NEL DIRITTO EUROPEO E NELLA PROSPETTIVA NORMATIVA NAZIONALE.  EVOLUZIONE E DIFFERENZE.

Autore: Avv. Francesco Petrocchi

 

Le pubbliche amministrazioni procedono alla gestione dei servizi o all’esecuzione dei lavori o in proprio mediante autoproduzione o esternalizzando a soggetti terzi. In quest’ultimo caso l’affidamento, secondo il diritto europeo, trasfuso nel d.lgs 50/2016 – Codice dei contratti – è sempre preceduto da gara, in osservanza dei principi e valori della concorrenza e della trasparenza. La procedura ad evidenza pubblica è stata estesa dalle Direttive e dalla giurisprudenza della Corte di giustizia a tutti quei soggetti – stazioni appaltanti che, indipendentemente dalla forma, sono soggetti a disciplina di tipo pubblicistico. Pertanto alfine della applicazione del codice di Contratti si ritiene irrilevante la forma, magari improntata anche a modelli privatistici (c.d. neutralità della forma) e si guarda alla funzione svolta dal soggetto giuridico. Se svolge attività di pubblico interesse è sottoposto alla norma di diritto pubblico. Di conseguenza anche il concetto di pubblica amministrazione, ai fini della applicabilità delle norme di trasparenza, concorrenza e accessibilità, non è statico ma, secondo il diritto europeo a “garantire variabili”. Ha fatto leva sul c.d. criterio dell’effetto inutile, la funzione concreta, per estendere il concetto di pubblica amministrazione e così la disciplina sugli appalti.

In tale contesto si pongono le società pubbliche, dotate di struttura formalmente privata ma che sono sostanzialmente pubbliche poiché la proprietà è pubblica e svolgono funzioni pubblicistiche.

Rispetto a tali soggetti giuridici si è posta la rilevante questione dello schema legale di affidamento di lavori e servizi da parte del soggetto pubblico proprietario: ossia se questo sia obbligato ad affidamenti ad evidenza pubblica o se si possa derogare con affidamento diretto c.d. “in house”.

La giurisprudenza eurounitaria si è confrontata con tale tema e diverse direttive lo hanno regolamentato con una evoluzione continua e spesso contrastante. Partendo dal principio della ordinaria e necessaria applicazione della gara nella destinazione degli affidamenti anche alle società partecipate, la giurisprudenza ha elaborato dei criteri per individuare le società potenzialmente destinatarie di affidamenti diretti.

La prima rilevante pronuncia della Corte di giustizia è la c.d. Teckal del 18.11.1999. La sentenza precisa due caratteristiche che deve possedere il soggetto affidatario per consentire l’affidamento diretto: a) Il c.d.“ controllo analogo” esercitato dalla amministrazione sull’Ente e b) la “prevalenza” di attività svolta a favore dell’Ente affidante.

Il primo requisitosi sostanzia in un controllo che viene equiparato a quello esercitato nei confronti di uno degli uffici di cui la amministrazione stessa si compone; cosicchè non esiste una alterità sostanziale tra i due soggetti ma la distinzione è solo formale.

La “prevalenza”, invece è indice del fatto che l’ente non sia un vero e proprio operatore nel mercato in quanto concentrato pressoché in via esclusiva a prestazioni a favore della p.a. proprietaria.

Tali caratteristiche, da un lato facendo venire meno la dualità tra affidante e affidatario e, dall’altro, limitando l’azione della società sul mercato, hanno fatto ritenere alla Corte di giustizia che in tali casi non fosse leso il principio di concorrenza e fosse quindi legittimo l’affidamento in “in house”.

Tali concetti hanno subito, nel tempo, rielaborazioni e variazioni in ragione di nuovi arresti giurisprudenziali e interventi normativi.

In una prima fase la Corte di giustizia ha maggiormente precisato e se possibile, reso più stringenti i requisiti elaborati dalla sentenza “Teckal”.

Rispetto alla compagine proprietaria, ai fini dell’”in house” ha ritenuto che la partecipazione debba essere totalmente pubblica al fine di eliminare ogni vantaggio ai tipo competitivo per l’azionista privato (così Cge Standt Halle del 2005) che non può avere neanche la possibilità teorica futura di partecipazione societaria (così Cge SEA SRL del 10.09. 2009).

Il controllo analogo viene “aggravato” dalla necessità di poteri gestori di controllo diretto e di direzione sociale da parte della proprietà pubblica mentre l’attività prestata a favore dell’Ente affidante è necessaria in termini di “esclusività” e non più di “prevalenza”.

L’evoluzione giurisprudenziale, assume una configurazione sempre più restrittiva nel delineare le caratteristiche di legittimità dell’”in house”.

Tale percorso si interrompe ed, in parte, si inverte con la Direttiva Appalti 24/2014 che interviene anche sull’”in house providing” fino a quel momento, regolamentato, come detto, solo dalla giurisprudenza della Corte di giustizia che ne aveva con precisione definito i confini.

La direttiva ammette la partecipazione del privato in via minoritaria, mettendo così in crisi la giustificazione teorica data dalla giurisprudenza all’”in house”, ossia la assenza di vantaggio competitivo del privato rispetto al mercato, come già osservato.

Torna altresì il concetto di “prevalenza” originariamente elaborato precisando nell’80% l’attività necessaria da svolgersi a favore dell’Ente affidante, ossia che esercita il controllo analogo.

Alla luce della evoluzione normativa, a livello europeo, si è affermata la natura ordinaria e non eccezionale dell’”in house providing” concepito come una soluzione alternativa, posta sul medesimo piano, rispetto alla esternalizzazione.

La direttiva europea, nell’ordinamento italiano è stata recepita, attraverso il Codice dei contratti.

All’art. 5 del d. lgs. 50/2016 vengono precisati i requisiti in ragione dei quali si può ricorrere all’ “in house”: un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi, la prevalenza per l’ 80% di attività a favore dell’amministrazione controllante, nessuna partecipazione privata al capitale ad eccezione di quelle che non comportano controllo  o potere di veto e che non esercitino una influenza determinante sulla persona giuridica.

Il legislatore ha altresì  aggiunto  ulteriori requisiti e formalità per l’”in house” ex art- 192 co. 2 del Codice dei contratti. E’ necessario per procedere con tale modello organizzativo che vi sia, sull’atto determinativo della p.a. una motivazione specifica su due elementi: la convenienza ed il fallimento del mercato ossia la dimostrazione del non agevole o pressoché impossibile ricorso al mercato per individuare il soggetto con cui contrarre.

Si tratta di un obbligo motivazionale rafforzato, non previsto nelle Direttive Europee, che ristringe il ricorso a tale modello.

Alla luce della differenza tra le previsioni eurounitarie e quelle italiane, occorre una specifica riflessione per individuare nel contesto normativo nazionale la natura dell’”in house”.

In via preliminare va, però, rappresentato che la giurisprudenza italiana ha dubitato della legittimità dell’”addendum” sia per contrasto con la stessa direttiva 2014/24 Ue sia con i parametri costituzionali interni per il ricorso al c.d. “goldplating” (introduzione di livelli di regolazione superiori e più gravosi rispetto ai minimi richiesti dalla Direttiva) in assenza di esigenze di salvaguardia di valori di rango costituzionale, unico presupposto per consentire il “goldplating” stesso.

La norma, rispetto ad entrambi i profili sollevati è stata ritenuta legittima.

La Corte di giustizia, sez. IX, con Sentenza del 6 febbraio 2020 ha ritenuto che, aver subordinato il ricorso all’”in house” a delle condizioni motivazionali espresse, non contrasti con la Direttiva in quanto tale facoltà rientra nella libertà degli Stati membri.

La Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi dal Tar Liguria con sentenza 100/2020 ha ritenuto conforme alle norme costituzionali ed europee l’art. 192 co. 2 del Codice dei Contratti. La Corte ha osservato che, nel caso di specie, gli ulteriori oneri motivazionali sono posti a salvaguardia dei valori di trasparenza e concorrenza, nei confronti dei quali le esigenze di semplificazione, efficienza ed autonomia organizzativa dell’Ente risultato essere recessive.

Ai fini di una più completa valutazione occorre, poi, considerare il contesto normativo specifico di riferimento in particolare il d. lgs. 175/16 (Tusp).

Nel testo unico si ritrova la medesima “ratio” che ha ispirato l’art. 192 co. 2. Ossia una forte cautela, espressa in forma di vincoli e limiti, già al mantenimento e vieppiù alla costituzione di nuove società pubbliche.

E’ previsto, altresì, un onere di motivazione analitica che riguardino convenienza, sostenibilità finanziaria e le ragioni della gestione diretta.

Alla luce del contesto normativo, l’”in house”, per precisa scelta del legislatore italiano non appare strumento ordinario alternativo alla esternalizzazione ma subordinato ed eccezionale.

Vi è infatti una forte restrizione della possibilità di ricorrere all’”in house” a vantaggio della tutela della concorrenza e della trasparenza.

Tale conclusione appare trovare riscontro nella recentissima giurisprudenza ammnistrativa che ha ribadito la sussistenza di un ordinamento di sfavore verso gli affidamenti diretti in regime di delegazione organica (ossia assenza di alterità) relegandoli ad un ambito eccezionale rispetto alla gara.

E così anche gli oneri motivazionali lungi dal rappresentare clausole di stile tautologiche e ridondanti, sono indicati e pretesi quali analitiche ragioni da esprimere in maniera seria e non generica.

Tale approdo, come abitualmente accade in “subiecta materia” non ha alcun carattere di definitività.

Ed infatti il legislatore dettando la governance del PNRR, al fine di snellire la procedura, ha ampliato il ricorso all’”in house providing”, dando il senso della dinamicità alla vicenda.

Per avvalersi dell’”in house” per il supporto tecnico operativo la norma (art. 10 del D.L. n. 77/21) precisa che ai fini dell’art. 192 co. 2 del d.lgs 50/16 si possa dar conto del mancato ricorso al mercato anche illustrando, tra l’altro, quale vantaggio il risparmio di tempo e di risorse economiche.

E’ evidente che tale disposto impatta sulla operatività concreta della motivazione, ampliandone le maglie e ponendo “de iure condendo” ulteriori probabili modifiche del quadro normativo.