A CURA DI

AVV. ANTONELLA ROBERTI

CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA: LA CORTE UE SI PRONUNCIA SUL TEMA DELLA “RESIDENZA ABITUALE” E DELLA COMPETENZA A STATUIRE IN RELAZIONE AD UNA DOMANDA DI DIVORZIO (CGUE 10 FEBBRAIO 2022, C-522/20).

 Autore: Avv. Teresa Aloi

 

La Corte di Giustizia dell’Unione europea, con la sentenza depositata il 10 febbraio 2022 nella causa C-522/20, chiarisce la portata dell’art. 3 del Regolamento n. 2201/2003 (noto come Regolamento “Bruxelles II bis”) che stabilisce una serie di titoli di giurisdizione esclusivi, nel senso che rendono inoperanti, entro l’ambito di applicazione del Regolamento stesso, le norme nazionali. Il Regolamento n. 2201/2003 che statuisce in tema di competenza, riconoscimento ed esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e di responsabilità genitoriale dal 1 agosto 2022, sarà sostituito dal Regolamento n. 2019/1111/UE (c.d. Bruxelles II ter). Esso ha come obiettivo di fornire norme più efficaci a tutela dei minori e dei loro genitori coinvolti in controversie transfrontaliere in materia di responsabilità genitoriale.

L’interesse superiore del minore è d’importanza primaria per ogni questione relativa alla sua custodia in conformità sia con l’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e sia con la Convenzione sui diritti del fanciullo delle Nazioni Unite del 20 novembre 1989. Il Regolamento integra la Convenzione dell’Aia del 25 ottobre 1980 sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori da parte di uno dei genitori e disciplina le decisioni attraverso cui si ordina il ritorno del minore al proprio Paese d’origine. La Convenzione dell’Aia qualifica come illecito il trasferimento o il mancato rientro del minore in relazione al suo luogo di residenza abituale immediatamente prima del suo trasferimento o del suo mancato rientro (art. 3).

La nozione di residenza abituale, posta da tale Convenzione, non coincide né con quella di domicilio né con quella di residenza formale ma corrisponde ad una situazione di fatto, dovendo intendersi il luogo in cui il minore, in virtù di una durevole e stabile permanenza, ha consolidato o possa consolidare una rete di affetti e relazioni tali da assicurargli un armonico sviluppo psicofisico.

Il caso all’origine della pronuncia della Corte di Giustizia UE in commento, vede come protagonisti un cittadino italiano e sua moglie di origine tedesca, entrambi residenti in Irlanda. Il marito, deciso a vivere in Austria, dopo un periodo di residenza in tale Stato, superiore a sei mesi, presenta, davanti al Tribunale distrettuale austriaco, domanda di divorzio dalla moglie, ritenendo che i giudici austriaci fossero competenti in base alla sua residenza, da lui considerata abituale in quel Paese. Tale domanda viene respinta nei due gradi di giudizio in quanto sia il Tribunale in primo grado che la Corte d’appello in secondo grado, non si erano ritenuti competenti non sussistendo la giurisdizione dei giudici austriaci in materia.

Il Regolamento Bruxelles II bis, relativo alla competenza in materia matrimoniale, infatti, esige, per tale caso, che l’attore abbia risieduto sul territorio nazionale dello Stato membro da almeno un anno prima della presentazione della domanda. L’attore, di contro, ritiene che il periodo di residenza minimo necessario ai fini della competenza dovrebbe essere di soli sei mesi, come previsto dal Regolamento per il caso in cui l’interessato sia in possesso della cittadinanza dello Stato membro in questione. Esigere dai cittadini degli altri Stati membri un periodo minimo di residenza più lungo rappresenterebbe una discriminazione fondata sulla nazionalità e, pertanto, vietata.

L’attore, pertanto, sulla base di tali considerazioni si rivolge alla Corte Suprema austriaca la quale, condividendo i dubbi sollevati riguardanti la compatibilità della differenza di trattamento, derivante dal Regolamento, con il principio di non discriminazione in base alla nazionalità, decide di sospendere il giudizio e chiedere l’intervento della Corte di Giustizia europea per alcuni chiarimenti sul Regolamento n. 2201/2003.

Secondo la Corte UE, l’art. 3 del Regolamento, il quale prevede che sulle questioni in materia di divorzio possa essere adìto il giudice della residenza abituale dell’attore se quest’ultimo ha la residenza abituale di sei mesi o di un anno a seconda che sia o meno cittadino di quello Stato, è giustificato da elementi oggettivi che rendono prevedibile anche al convenuto l’individuazione del giudice competente di uno Stato membro. Pertanto, nel prevedere un diverso arco temporale ai fini dell’individuazione della residenza abituale a seconda che si tratti di un cittadino dello Stato del giudice adìto o di un individuo che abbia la cittadinanza di altro Stato membro, non si può ravvisare una violazione del principio di non discriminazione in base alla nazionalità.

Con la sentenza in commento, la Corte di Giustizia UE si pronuncia nel senso che il principio di non discriminazione in base alla nazionalità, sancito dall’art. 18 TFUE, non osta alla differenza di trattamento in questione. Per la Corte, infatti, la scelta del legislatore europeo di distinguere la durata del periodo minimo di residenza abituale richiesto nel caso di forum actoris a secondo della cittadinanza non viola l’art. 18 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea che vieta ogni forma di discriminazione sulla base della cittadinanza, norma che comporta che situazioni analoghe non siano trattate in maniera diversa e che situazioni diverse non siano “trattate in maniera uguale, a meno che tale trattamento non sia oggettivamente giustificato”.

Nel caso dell’art. 3 vengono trattate in modo diverso situazioni che sono diverse proprio per la presenza di un elemento come la cittadinanza che è indice di un legame con il proprio Paese ed è corretto, pur non assumendo la cittadinanza come elemento unico per determinare la residenza abituale, che l’esistenza di “legami culturali, linguistici, sociali, familiari o patrimoniali” permetta di “apprezzare il collegamento tra detto coniuge e lo Stato membro interessato”. Di conseguenza, in questa situazione esiste una presunzione circa il collegamento effettivo “che deve sussistere tra l’attore e lo Stato membro i cui giudici esercitano tale competenza”.

I giudici di Lussemburgo ricordano che il Regolamento mira a garantire la sussistenza di un reale collegamento con lo Stato membro i cui giudici esercitano la competenza a trattare una domanda di divorzio. Sotto tale profilo, un attore, cittadino di tale Stato membro che a seguito di una crisi coniugale lascia la residenza abituale comune della coppia e decide di ritornare nel proprio Paese d’origine, non si trova, in linea di principio, in una situazione paragonabile a quella di un attore che non possiede la cittadinanza del suddetto Stato membro e che vi si trasferisce a seguito di una crisi siffatta. Un cittadino di tale Stato membro, infatti, mantiene necessariamente con quest’ultimo legami di diversa natura.

Un collegamento del genere può, pertanto, già contribuire a determinare il necessario nesso reale con tale Stato. Peraltro, esso garantisce un elevato grado di prevedibilità per l’altro coniuge, in quanto quest’ultimo può aspettarsi che una domanda di divorzio venga eventualmente proposta davanti ai giudici di tale Stato membro.

La Corte conclude nel senso che non è manifestamente inadeguato che un tale collegamento sia stato preso in considerazione dal legislatore dell’Unione per determinare il periodo di residenza effettivo richiesto all’attore sul territorio dello Stato membro interessato. Poiché il possesso della cittadinanza dello Stato membro interessato contribuisce a garantire un reale collegamento con quest’ultimo è corretto esigere in questo caso un periodo minimo di residenza abituale sul territorio nazionale di sei mesi invece di un anno.

Per completezza va sottolineato che, sulla nozione di residenza abituale in relazione ad una domanda di divorzio, la Corte di Giustizia dell’Unione europea si era già espressa alcuni mesi prima con riferimento al caso di un cittadino francese.

Con la sentenza depositata il 25 novembre 2021 (causa C-289/20) la Corte UE era stata chiamata a rispondere alla domanda se possono coesistere ed essere contemporaneamente considerate due residenze abituali nei casi in cui debba essere determinato il giudice competente secondo il Regolamento UE n. 2201/2003.

A chiedere l’intervento dei giudici di Lussemburgo era stata la Corte d’appello di Parigi cui si era rivolto un cittadino francese, sposato con una cittadina irlandese e residente abitualmente in Irlanda, che aveva presentato domanda di divorzio in Francia dove si era trasferito da tempo e dove svolgeva anche un’attività professionale continuando a mantenere, però, la residenza in Irlanda. Egli rivendicava la possibilità di scegliere tra due residenze abituali, una professionale ed una personale.

Il Tribunale di primo grado di Parigi si era dichiarato incompetente in materia proprio perché, a suo avviso, la residenza familiare del ricorrente era da collocarsi in Irlanda nonostante alcuni suoi spostamenti in Francia.

Per la Corte di Giustizia UE, è vero che è possibile avere una doppia o una multipla residenza abituale, ma l’art. 3 del Regolamento n. 2201/2003, che utilizza come titolo di giurisdizione principale quello della residenza abituale, prevedendo un concorso alternativo dei titoli di giurisdizione in relazione ai coniugi coinvolti nel procedimento, impone l’individuazione di un’unica residenza abituale. Precisato che si tratta di una nozione dell’Unione europea e che va escluso il rinvio ai singoli ordinamenti nazionali, quella di residenza abituale è tradizionalmente considerata una nozione atecnica, di natura fattuale, il cui elemento obiettivo è la stabilità. Il periodo di permanenza in un dato luogo deve essere “apprezzabile”, “non occasionale”, ma non necessariamente continuativo.

Secondo la Corte di Giustizia europea, pertanto, per residenza abituale deve intendersi il luogo in cui l’interessato fissa il centro permanente o abituale dei propri interessi con la conseguenza della necessità di effettuare una valutazione caso per caso sulla base, però, di fattori di collegamento di fatto, al fine di assicurare certezza del diritto e prevedibilità nell’individuazione del giudice competente. Se l’interessato cambia residenza, pertanto, deve essere considerata la situazione specifica al fine di accertare l’esistenza di un effettivo cambiamento nella residenza abituale e, in particolare, la sua volontà di stabilire tale residenza, con l’intenzione di dare un carattere di stabilità al centro permanente o abituale dei suoi interessi. In ogni caso, precisa la Corte, l’assimilazione della residenza abituale del coniuge al centro permanente o abituale in cui si trovano i suoi interessi non ha come conseguenza che possa essere accolta la possibilità di avere una pluralità di residenze, ai fini del Regolamento, tutte con la caratteristica dell’abitualità. Il coniuge potrà dividere la propria vita in due Stati, soprattutto nei casi di crisi familiari che talvolta portano ad uno spostamento di residenza ma, ai fini dell’applicazione dell’art. 3 del Regolamento, la residenza abituale deve essere unica perché, in caso contrario, sarebbe impossibile determinare in anticipo i giudici competenti a pronunciarsi sullo scioglimento del vincolo matrimoniale, con conseguenze negative anche per l’applicazione di altri Regolamenti che richiamano l’art. 3 del Regolamento n. 2201/2003. In ultimo, nel caso in esame, la Corte UE ritiene che diversi elementi possono portare a ritenere che il ricorrente abbia un forte grado di integrazione in Francia perchè esercita in modo stabile e permanente l’attività professionale in quel Paese, in quanto l’uomo si era spostato in Francia da almeno sei mesi immediatamente prima della presentazione della sua domanda di scioglimento del matrimonio, come richiesto dall’art. 3 e perché aveva mostrato una stabilità ed un’integrazione nell’ambiente sociale e culturale di quello Stato, suo Paese di origine.

Tuttavia, la parola passa ai giudici nazionali che, esclusa la possibilità di considerare due residenze come abituali, devono verificare se, dall’insieme elle circostanze di fatto, si possa ritenere che la residenza abituale del ricorrente sia stata trasferita nello Stato membro cui appartiene il giudice adìto.

 

Avv. Teresa Aloi,  Foro di Catanzaro.