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AVV. ANTONELLA ROBERTI

CEDU: VIOLENZA DOMESTICA, LA CORTE DI STRASBURGO CONDANNA L’ITALIA PER VIOLAZIONE DELL’ART. 2 (DIRITTO ALLA VITA) DELLA CONVENZIONE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO (CEDU 7 APRILE 2022, RICORSO N. 10929/2019).

Autore: Avv. Teresa Aloi

 

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con sentenza del 7 aprile 2022, ha condannato l’Italia per aver violato l’art. 2 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu) che tutela il diritto alla vita. La Corte riconosce che l’Italia ha necessità di risolvere il problema della violenza domestica e, nel caso di specie, condanna il sistema Paese per la sua inerzia e la sua passività di fronte a tale fenomeno.

I fatti all’origine della sentenza risalgono al 2018 quando, in una località in provincia di Firenze, un uomo uccise a coltellate il figlio di un anno, ferendo in modo grave la convivente e cercando di uccidere l’altra figlia di sette anni.

A rivolgersi alla Corte UE era stata la donna che, nel ricorso presentato alla Corte UE, sosteneva che lo Stato italiano avesse violato il suo diritto alla vita e quello dei suoi figli (art. 2 Cedu) e che la violazione nei suoi confronti fosse da imputare in parte ad un atteggiamento discriminatorio nei confronti delle donne da parte dell’autorità italiana (art. 14 Cedu).

Gli episodi di violenza avevano avuto inizio fin dal 2015 quando la natura dell’uomo, affetto da bipolarismo, inizia a manifestarsi sotto forma di sbalzi d’umore e, soprattutto, di episodi di violenza. Tra il 2015 ed il 2018 almeno quattro le aggressioni accertate sia a livello medico-ospedaliero sia dalle forze dell’ordine intervenute a seguito di segnalazioni e conseguenti denunce da parte della donna. Nonostante l’apertura di una procedura per violenza domestica e la nomina di un esperto che sottolineava la pericolosità sociale dell’uomo a causa della patologia di cui soffriva, consigliandone anche un programma terapeutico, durante l’inchiesta non venne presa alcuna misura per proteggere la donna ed i suoi figli.

I giudici di Strasburgo, nell’esaminare il caso, hanno ritenuto sussistere la violazione dell’art. 2 Cedu ma non hanno riconosciuto l’aggravante della discriminazione ex art. 14 Cedu.

Per quanto riguarda la censura sollevata ai sensi dell’art. 2 Cedu, la Corte europea ha rilevato che il quadro giuridico italiano è in grado di fornire protezione preventiva contro atti di violenza in determinati casi. Nell’ipotesi in esame, le autorità competenti avrebbero potuto applicare misure giuridiche ed operative idonee a prevenire il rischio mortale subìto dalla ricorrente e dai suoi figli. Esse, pertanto, sono venute meno al loro dovere di effettuare una valutazione immediata del rischio di reiterazione degli atti violenti commessi nei confronti delle vittime, adottando misure preventive per proteggere gli interessati e censurando in via definitiva le condotte delittuose del compagno della ricorrente.

Secondo la Corte, infatti, si è sottostimata la situazione e la ripetizione di eventi di aggressioni domestiche non ha indotto chi aveva il dovere di intervenire a considerare la natura strutturale di un problema che avrebbe dovuto indurre a ragionare sulla situazione e ad evitare la tragedia che ne è scaturita. In particolare, i pubblici ministeri sono rimasti passivi di fronte al grave rischio di maltrattamenti nei confronti della donna e la loro inerzia ha consentito al compagno di continuare a minacciarla, molestarla ed aggredirla nella più totale impunità fino ad arrivare all’omicidio del figlio.

Dalle informazioni note alle autorità nazionali, all’epoca dei fatti esisteva un rischio reale ed imminente di ulteriori violenze anche in considerazione dei problemi di salute mentale dell’uomo per cui, secondo la Corte, le autorità nazionali non hanno mostrato la necessaria diligenza. Esse, se avessero tenuto in debita considerazione l’ampia gamma di misure di protezione a loro disposizione, avrebbero potuto attuare misure protettive allertando i servizi sociali e psicologici e collocando la donna ed i suoi figli presso un centro di accoglienza, anche indipendentemente dal fatto se ci fosse stata una denuncia o qualsiasi cambiamento nella percezione del rischio da parte della vittima. Pertanto, si ravvede anche il dolo da parte dell’Italia che ha lasciato sola la donna venendo meno al suo dovere di protezione.

Tra le argomentazioni difensive che erano state presentate alla Corte europea dallo Stato italiano vi era anche quella secondo la quale alcuni mesi prima dell’accaduto la donna aveva rimesso la querela presentata nei confronti del convivente, poi lo aveva ripreso a vivere a casa sua e non aveva mai fatto domanda al giudice di adozione delle misure di protezione previste dagli artt. 342 bis e 342 ter c.c. (ordini di protezione contro gli abusi familiari). Lo stesso avvocato della donna ha evidenziato come tale motivazione è da considerarsi inaccettabile perché lo Stato ha comunque il dovere di capire cosa sta accadendo in questi casi e di intervenire.

Nella stessa sentenza pronunciata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, su tale punto si legge che le autorità italiane avrebbero dovuto adottare misure di protezione nei confronti delle vittime “indipendentemente dalla presentazione di denunce ed indipendentemente dal fatto che fossero state ritirate, o del cambiamento di percezione del rischio da parte della vittima”.

Alla luce di quanto considerato, la Corte di Strasburgo ha concluso che, non avendo esercitato la diligenza richiesta dal caso di specie, le autorità giudiziarie italiane sono venute meno alle obbligazioni positive derivanti dall’art. 2 della Cedu nella misura in cui esso stabilisce che “il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge. Nessuno può essere intenzionalmente privato della vita, salvo che in esecuzione di una sentenza capitale pronunciata da un tribunale, nel caso in cui il reato sia punito dalla legge con tale pena”. I giudici europei hanno constatato che non è stato dimostrato in alcun modo dal Governo italiano che la ricorrente avrebbe potuto agire in sede civile per accertare la responsabilità dello Stato e, nello specifico, del potere giudiziario, per il mancato adempimento dell’obbligo positivo di proteggere la sua vita e quella dei suoi figli nel contesto della violenza domestica al fine di ottenere il riconoscimento della violazione ed un’adeguata riparazione.

A questo proposito la Corte europea ha citato le risultanze del Rapporto redatto dal Gruppo di esperti indipendenti del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti  delle donne e la violenza domestica (GREVIO) relativo all’attività dello stesso da giugno 2019 a dicembre 2020, pubblicato il 13 gennaio 2020. Tale rapporto descrive lo stato di applicazione della Convenzione di Instabul 2011[1], recepita nel nostro Paese nel 2013 ed offre raccomandazioni per la sua piena realizzazione. Esso sottolinea le tendenze nella fornitura di servizi alle vittime ed, in particolare, le esamina nel contesto della pandemia che negli ultimi anni ha notevolmente aumentato la necessità di offrire assistenza a queste persone. Il rapporto mostra la misura in cui la pandemia ha portato alla luce le carenze persistenti relative ai servizi specializzati, con un impatto significativo sulla possibilità delle donne e delle ragazze di accedere a servizi di assistenza specializzati per le diverse forme di violenza che potrebbero subire.

In particolare, la Corte UE ha esortato le autorità italiane a colmare la lacuna legislativa riguardante la mancanza di rimedi civili efficaci esperibili avverso qualsivoglia autorità statale che non adotti misure preventive o protettive necessarie in relazione alle fattispecie di violenza domestica. Di conseguenza, essa ha ritenuto che la ricorrente non avesse a disposizione un rimedio civile da esaurire preventivamente per far valere il fallimento dello Stato, respingendo così l’eccezione del Governo italiano.

La Corte ha ricordato, inoltre, che l’obbligo positivo, previsto dall’art. 2 Cedu, di adottare misure operative preventive per proteggere un individuo la cui vita è minacciata dalle azioni criminali di altri, è stato formulato per la prima volta nel caso Osman contro Regno Unito (CEDU 28 ottobre 1998, ricorso n. 23452/94). Secondo questa sentenza se le autorità sono a conoscenza o avrebbero dovuto esserlo, del fatto che esiste un rischio reale ed immediato alla vita di un particolare individuo in ragione degli atti criminali di un terzo, esse devono applicare, nell’ambito dei loro poteri, tutte le misure che possono essere ragionevolmente adottate per evitare quel rischio.

La portata ed il contenuto di questo dovere nel contesto del fenomeno della violenza domestica sono stati recentemente chiariti nella sentenza della Corte UE relativa al caso Kurt contro Austria (CEDU, Grande Camera, 15 giugno 2021, ricorso n. 62903/2015).

Nel caso oggetto della sentenza in commento dello scorso 7 aprile, la Corte ha osservato che, mentre i carabinieri avevano sempre reagito prontamente di fronte ai diversi episodi di violenza, l’ufficio del pubblico ministero, che era stato informato a più riprese dalle stesse forze dell’ordine, era rimasto inattivo non considerando che le minacce subìte dalla ricorrente fossero continue e che la stessa fosse stata anche sottoposta a violenze fisiche. Le autorità non hanno ritenuto, trattandosi di una situazione di violenza domestica, che le denunce meritassero un intervento attivo venendo meno al proprio dovere di effettuare una valutazione immediata e proattiva del rischio di recidiva della violenza commessa contro la ricorrente ed i bambini e di adottare le misure necessarie a mitigare tale rischio.

La ricorrente, inoltre, basandosi sull’art. 14 in combinato disposto con l’art. 2 Cedu, ha sostenuto come la mancanza di protezione legislativa e di una risposta adeguata da parte delle autorità italiane alle sue accuse di violenza domestica hanno costituito un trattamento discriminatorio fondato sulla differenza di genere. La Corte europea ha sottolineato, però, che nulla nella presente causa, ha fatto emergere che i pubblici ministeri avessero agito con intenti discriminatori nei confronti della ricorrente. Una violazione dell’art. 14 della Cedu si verifica solo in presenza di carenze generali derivanti da una chiara e sistematica incapacità delle autorità nazionali di valutare ed affrontare la gravità e la portata del problema della violenza domestica e del suo effetto discriminatorio sulle donne.

Di conseguenza, le carenze censurate, pur essendo originate da una grave inerzia da parte delle autorità ed essendo illegittime ed incompatibili con l’art. 2 della Convenzione, non sono state ritenute di per sé intese ad indicare atteggiamenti discriminatori da parte delle autorità e, pertanto, non hanno costituito violazione dell’art. 14 Cedu.

Adesso, dopo quattro anni dalla tragedia, la Corte UE ha condannato lo Stato italiano che dovrà pagare 32 mila euro per danni morali mentre l’omicida è stato condannato a 20 anni di carcere con rito abbreviato.

Da più parti si è sottolineato come tale sentenza debba spronare le istituzioni italiane a fare di più per combattere una piaga drammatica quale quella della violenza contro le donne ed il femminicidio.

Nel caso esaminato, la Corte europea non ha riconosciuto la discriminazione di genere ma la Commissione d’inchiesta del Senato sul Femminicidio ha evidenziato come uno dei principali problemi in queste vicende è che le donne non vengono credute. Le leggi per intervenire ci sono, ma la violenza di genere va riconosciuta e contrastata fin dal suo insorgere per evitare future tragedie.

Il disegno di legge del Governo attualmente in discussione al Senato punta ad aumentare le misure di protezione, tra cui l’allontanamento dell’uomo dalla casa familiare ed il braccialetto elettronico. In questo contesto diventa prezioso l’apporto della rete dei centri antiviolenza e delle Case rifugio ma per questo servono maggiori finanziamenti e procedure più snelle per ottenerli.

L’eliminazione radicale del fenomeno della violenza contro le donne pone una sfida difficile per tutti i Paesi del Consiglio d’Europa e per la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, soprattutto in considerazione delle implicazioni socioculturali che questo fenomeno comporta.

L’espressione “violenza contro le donne” è intesa come comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica che nella vita privata.

La violenza contro le donne, come emerge dal rapporto del Consiglio d’Europa sulle strategie da adottare per l’uguaglianza tra donne e uomini, rappresenta una delle espressioni più evidenti dello squilibrio di potere tra uomini e donne, costituendo nello stesso tempo una violazione dei diritti umani ed uno dei principali ostacoli all’uguaglianza di genere. L’impunità diffusa e le risposte spesso inadeguate degli Stati nell’affrontare tale tipo di violenza, spesso basate su stereotipi patriarcali del rapporto uomo donna, lascia molte donne vittime di violenza senza protezione e senza possibilità di ricorrere alla giustizia.

La lotta contro questa forma di violenza è disciplinata da vari strumenti normativi internazionali (convenzioni, raccomandazioni, dichiarazioni, ecc.) che hanno condotto non solo ad una definizione del fenomeno che potesse includere le varie forme di violenza di cui una donna può essere vittima (fisica, psicologica, verbale) ma anche all’adozione di standard normativi comuni agli Stati contraenti.

In questo contesto, l’azione della Corte europea riveste una grande importanza non solo per la tutela che apporta direttamente alle ricorrenti nei casi che vengono sottoposti alla sua attenzione, ma anche per l’interpretazione estensiva del dettato convenzionale sviluppatesi nella sua giurisprudenza che ha permesso di riconoscere importanti obblighi positivi a carico degli Stati membri.

Lo stesso art. 1 della Convenzione dei Diritti dell’Uomo statuisce che gli Stati membri del Consiglio d’Europa sono chiamati a riconoscere ad ogni persona sottoposta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà garantiti dalla Convenzione nella relazione tra privati cittadini. Il ricorso al concetto di “obbligo positivo” ha permesso alla Corte di rafforzare e, talvolta, estendere i requisiti sostanziali del testo europeo, al fine di garantire agli individui l’effettivo godimento dei diritti sanciti dalla Convenzione.

Tra le clausole fondamentali della Convenzione vi sono gli artt. 2 e 3 che tutelano gli individui contro gravi forme di offese alla vita ed all’integrità della persona e sanciscono alcuni dei valori fondanti delle società democratiche degli Stati che formano il Consiglio d’Europa. Nell’ambito dell’art. 2 Cedu, lo Stato è chiamato a dotarsi di un sistema giudiziario efficace ed indipendente caratterizzato da diligenza e prontezza nell’azione di fronte ad una minaccia costante e continua.

La Corte europea ha più volte ribadito che le donne vittime di violenza così come tutte le persone vulnerabili hanno diritto alla protezione dello Stato sotto forma di una prevenzione efficace che le metta al riparo da forme altrettanto gravi di offese all’integrità della persona. L’obbligo positivo a carico dello Stato di proteggere l’integrità delle donne vittime di violenza riguarda anche l’effettività dell’accesso alla giustizia che necessita di indagini effettive e tempestive oltre che imparziali, indipendenti e sufficientemente ampie da prendere in considerazione ogni elemento rilevante.

Si tratta di un obbligo di mezzi e non di risultato: si deve dare prova di aver utilizzato tutti i mezzi disponibili per assicurare l’effettività dell’inchiesta mettendo in atto una pronta reazione alle denunce delle vittime attraverso l’adozione di misure di protezione e di prevenzione. Non agendo con prontezza e rapidità dopo il deposito di una denuncia penale, le autorità nazionali privano la stessa denuncia della sua efficacia, creando un contesto di impunità favorevole al perpetrarsi di ulteriori violenze.

Spesso gli ostacoli che impediscono l’accesso alla giustizia vanno oltre il singolo caso dei ricorrenti alla Corte europea. Essi riflettono un più ampio problema di percezione socioculturale del fenomeno della violenza contro le donne, che discrimina le vittime e che, in ultimo, comporta una tolleranza del fenomeno da parte delle autorità e della stessa società. Incombe, pertanto, agli Stati membri l’obbligo di assicurare che il loro sistema giuridico garantisca un accesso alla giustizia libero da ogni tipo di discriminazione.

E’ necessario che sia garantita la “tutela anticipata” della vittima ancora prima del processo. In molti casi si parte dallo stalking per arrivare al femminicidio, per cui l’interrogativo è: la normativa sul reato di stalking è efficace ed immediata?

Alla vittima poco importa se il proprio carnefice verrà condannato tra 3, 5 o 7 anni, ma interessa che sia allontanato velocemente dalla casa comune, che non si avvicini ai bambini, di poter disporre di un sostegno economico, quindi, una protezione immediata affinchè la vittima non rimanga in balìa del proprio aggressore. Le forme di tutela anticipata prima del processo costituiscono, pertanto, il vero punctum dolens  del fenomeno. I fatti di cronaca, purtroppo, evidenziano come le misure di tutela anticipata in atto non siano sufficienti; per esempio, in caso di violazione del divieto di avvicinamento non si ha l’attribuzione di un reato in capo all’autore della violenza, ma solo un aggravamento della misura cautelare già adottata nei suoi confronti, spesso le norme in materia si riferiscono al soggetto “imputato” ma l’autore della violenza può non aver ancora assunto tale ruolo, inoltre, tra la denuncia e l’esercizio dell’azione penale passano diversi mesi durante i quali la vittima può rimanere priva di tutela sentendosi abbandonata dallo Stato, o ritenere che la sua denuncia possa aggravare la situazione di paura per una possibile vendetta dell’aggressore.

La riforma del processo penale e della giustizia riparativa elaborata dal Ministro Cartabia, in discussione in Parlamento, ha come obiettivo quello di realizzare un sistema che riesca a domare “la rabbia della violenza e ricostruire i legami civici tra i cittadini”.

Il cuore della giustizia riparativa risiede nel radicale mutamento di prospettiva rispetto alla giustizia tradizionale, valorizzando la vittima e la sua sofferenza, consentendole di esternare il dolore subìto e chiamando il reo a prenderne atto. L’introduzione di forme di giustizia penale riparativa consente di perseguire un duplice scopo: il rispetto della dignità umana, della vittima così come del reo, e la creazione di un sistema efficace a tutela dell’incolumità e della sicurezza dei cittadini.

La giustizia riparativa non è uno strumento di clemenza ma un aiuto al trasgressore affinchè attraverso l’incontro ed il dialogo si assuma la propria responsabilità nei confronti della vittima e della comunità. La diffusione di una cultura di risoluzione del conflitto a beneficio di tutti, arginando l’inasprimento dell’odio e della violenza, promuovendo la desistenza del crimine e riducendo la recidiva offre l’opportunità, per le vittime di liberarsi dal peso del trauma subìto a causa del reato ed al reo una seconda possibilità con la prospettiva di un eventuale reinserimento sociale.

Punto saliente della riforma è anche la specifica formazione dei mediatori penali che presiedono e favoriscono il confronto tra le parti coinvolte e la necessità dell’accertamento dei fatti nell’ambito dell’ambiente domestico. Altro aspetto molto importante del fenomeno in esame è la cosiddetta “vittimizzazione secondaria”.

La “vittimizzazione primaria” è ravvisabile, in astratto, nella condotta violenta ed abusante degli autori del reato. La “vittimizzazione secondaria” consiste nel rivivere le condizioni di sofferenza a cui è stata sottoposta la vittima di un reato ed è spesso riconducibile alle procedure poste in essere dalle istituzioni conseguenti ad una denuncia. Essa è una conseguenza troppo spesso sottovalutata in tutti quei casi in cui le donne sono vittima di reati di genere e l’effetto principale è quello di scoraggiare la presentazione della denuncia da parte delle stesse. Ad esempio, ogni procedimento penale per stupro è già di per sé una sofferenza per la vittima reale o presunta. Il momento della denuncia è traumatico, non solo perché obbliga la persona a ripercorrere tutte le fasi della violenza subìta descrivendola nei particolari, ma, soprattutto, perché la vittima è costretta a raccontare tutto ad estranei, spesso uomini, i quali anche involontariamente suscitano nella denunciante sentimenti di vergogna. In secondo luogo, in questi casi le indagini preliminari, quasi sempre, si snodano attraverso una visita medica che invade la sfera più intima ed i cui risultati vengono riportati in un referto scritto consegnato all’autorità giudiziaria, particolari che la persona offesa non vorrebbero fossero resi pubblici.

Infine, c’è la sofferenza della vittima durante il processo dove la strategia difensiva dell’imputato si fonda sulla ricostruzione della vita della persona offesa, diretta a dimostrare l’esistenza del consenso, espresso o tacito, della stessa.

Nell’ultimo rapporto GREVIO si evidenzia, come punto debole, la pronuncia sull’affidamento dei figli, “il racconto della violenza nei processi è talvolta mitigato, la donna stessa è considerata corresponsabile della violenza subìta; è ritenuta una provocatrice di una reazione del maltrattante”. Secondo il GREVIO, c’è un vuoto di “canali di comunicazione tra la giustizia civile e penale,  la mancanza di conoscenza del fenomeno della violenza di genere e le conseguenze che questa ha sui bambini che ne sono testimoni”. In particolare, i magistrati civili tendono a fare affidamento sulle conclusioni dei consulenti tecnici e degli assistenti sociali che spesso assimilano la violenza di genere al conflitto di coppia. Nei processi che riguardano l’affido dei minori, i padri che maltrattano richiedono frequentemente l’affido esclusivo o condiviso dei figli. Alla base di tali richieste  l’idea di una possibile manipolazione materna, con la conseguenza che le madri spesso perdono la responsabilità genitoriale.

Non è ammissibile reprimere la violenza a livello penale e poi ignorarne gli effetti nei procedimenti che regolano l’affidamento dei figli o la responsabilità genitoriale, tollerando che l’autore di tali condotte, da una parte sia indagato e condannato per quanto commesso e, dall’altra sia considerato un genitore degno al pari di quello che ha subìto la violenza.

Accade, infatti, che nei processi la violenza può essere confusa con i conflitti di separazione. Contribuisce ad alimentare tale confusione una formazione non adatta da parte dei consulenti. Sono tante le donne che in sede civile devono lottare perché venga garantita nei loro confronti una protezione in quanto vittime ed un diritto in quanto madri e donne. Il rischio della vittimizzazione secondaria è che le donne non vengano credute e si scoraggino di fronte a simili situazioni non denunciando proprio perché hanno paura di essere allontanate dai propri figli.

Figli che spesso sono testimoni di episodi di violenza di genere, per cui vi è la necessità di prevedere l’obbligo dell’ascolto dei minori. Tale obbligo è un dovere morale e civile di tutti al fine di costruire una rete protettiva nei loro confronti.

Nella prospettiva di una riforma della normativa europea diretta a combattere la violenza di genere va segnalata la “Direttiva sulla lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica” proposta dalla Commissione europea nella giornata internazionale delle donne l’8 marzo scorso.

La Direttiva renderà penalmente perseguibile lo stupro come atto basato sulla mancanza di consenso e la violenza on line, in particolare, la condivisione non consensuale di immagini intime, lo stalking on line, le molestie on line e l’incitamento alla violenza o all’odio on line. La proposta integra e rende operativa la legge sui servizi digitali mediante la definizione dei contenuti illegali on line connessi alla violenza on line. Le nuove norme, inoltre, rafforzano l’accesso delle vittime alla giustizia e sollecitano gli Stati membri ad instaurare un sistema di sportello unico, con servizi di assistenza e protezione ubicati tutti nello stesso luogo.

Tali disposizioni invitano a predisporre un’assistenza specialistica ed una protezione adeguata, per esempio, istituendo linee gratuite di assistenza telefonica e creando centri antistupro o un’assistenza mirata, come quella diretta alle donne che fuggono da conflitti di guerra.

Gli elementi chiave delle nuove norme proposte riguardano l’introduzione di nuove modalità di denuncia, più sicure, più semplici, più accessibili, anche on line. Nel segnalare un sospetto fondato di rischio imminente di danno fisico grave, i professionisti che si occupano di violenza, ad esempio, gli operatori sanitari o gli psichiatri, non verrebbero più ostacolati dalle norme poste a tutela della privacy. Le autorità sarebbero obbligate ad effettuare valutazioni individuali dei rischi al momento del primo contatto da parte della vittima, così da poter valutare in che misura l’autore del reato possa rappresentare un rischio. Su tale base, esse dovrebbero fornire immediatamente protezione alla vittima mediante l’emanazione urgente di misure di allontanamento o di ordini di protezione.

La Commissione europea in tale atto propone che le prove o le domande relative alla vita privata della vittima, al fine di valutarne la credibilità, in particolare quelle sulla sua storia sessuale, possano essere utilizzate solo se strettamente necessarie. La vittima dovrebbe avere il diritto di chiedere all’autore del reato il risarcimento integrale dei danni, compresi i costi dell’assistenza sanitaria, dei servizi di sostegno, della perdita di reddito e dei danni fisici e psicologici subìti e dovrebbe poter chiedere tale risarcimento nel corso del procedimento penale senza il limite di massimale.

Se la vittima è minorenne, le autorità dovrebbero fornirle un’assistenza adeguata all’età, nell’interesse superiore del minore. Le vittime di violenza on line avranno diritto anch’esse ad un sostegno adeguato tra cui una consulenza su come ottenere assistenza legale e come rimuovere determinati contenuti on line. In caso di molestie sessuali sul lavoro, dovrebbero essere messi a disposizione delle vittime e dei datori di lavoro servizi di consulenza esterna.

La vittima di violenza non dovrà essere costretta a presentare materialmente una denuncia ma potrà presentarla o integrarla on line caricando materiale anche attraverso uno screenshot, modalità previste nell’ottica di facilitare l’accesso alla giustizia.

La Direttiva prevede, inoltre, che gli Stati membri dovrebbero scambiarsi le migliori pratiche consultarsi  sui casi di rilevanza penale, anche attraverso Eurojust, Agenzia di cooperazione giudiziaria penale dell’Unione Europea,[2] e la rete giudiziaria europea. Per seguire i progressi compiuti e monitorare la situazione in tutti gli Stati membri, la Commissione propone l’obbligo per questi ultimi di raccogliere dati sulla violenza contro le donne e la violenza domestica da utilizzare ai fini di un’indagine condotta a livello dell’Unione europea ogni 5 anni.

La necessità di prevenire e combattere la violenza contro le donne, proteggere le vittime e punire gli autori di questi reati è stata annunciata negli orientamenti politici della Presidente della Commissione europea, Ursula von der Lejen, quale priorità fondamentale della Commissione e rientra nella strategia adottata per il riconoscimento della parità di genere 2020-2025.

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in futuro sarà, senza dubbio, chiamata nuovamente ad esaminare casi di violenza contro le donne e non mancherà di essere attenta garante dei diritti delle vittime ma solo attraverso la creazione di una sinergia positiva e duratura tra gli Stati membri e gli organi del Consiglio d’Europa si potrà giungere ad un vero e proprio cambiamento della percezione sociale e culturale del ruolo della donna nella società.

 

Autore: Avv. Teresa Aloi,  Foro di Catanzaro.

 

[1] La Convenzione di Istanbul è un Trattato internazionale contro la violenza sulle donne e la violenza domestica, approvata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 7 Aprile 2011. Il Trattato si propone di prevenire la violenza, favorire la protezione delle vittime ed impedire l’impunità dei colpevoli. Esso è stato firmato da 45 Paesi ed il 12 marzo 2012 la Turchia è diventata il primo Paese a ratificare la Convenzione, ma il 20 marzo 2021 ha revocato la propria partecipazione alla Convenzione attraverso un decreto firmato dal Presidente Erdogan.

L’Italia, ha ratificato la Convenzione il 19 giugno 2013, dopo l’approvazione unanime del testo alla Camera e dopo che il Senato ha votato il documento con 274 voti favorevoli ed un solo astenuto.

La Convenzione contiene 81 articoli divisi in 12 capitoli. Nel Preambolo sono richiamati la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, la Carta sociale europea e la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta di esseri umani nonché i Trattati internazionali sui diritti umani dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale. All’art. 2, essa indica che le disposizioni si applicano in tempo di pace ed anche in situazioni di conflitto armato.

[2] Eurojust è un organismo dell’Unione europea, istituita nel 2002, sostiene il coordinamento e la collaborazione giudiziaria tra le amministrazioni nazionali nelle attività di contrasto al terrorismo e delle forme gravi di criminalità organizzata che interessano più di un Paese dell’Unione europea.