A CURA DI

AVV. ANTONELLA ROBERTI

CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA: UNA DISPOSIZIONE DEL REGOLAMENTO INTERNO DI UN’IMPRESA PRIVATA CHE VIETA DI INDOSSARE SUL LUOGO DI LAVORO, IN MODO VISIBILE, UN SEGNO RELIGIOSO, FILOSOFICO O SPIRITUALE NON COSTITUISCE DISCRIMINAZIONE DIRETTA SE APPLICATA IN MODO GENERALE ED INDISCRIMINATO (CGUE 13 OTTOBRE 2022, C-344/2020). 

Autore: Avv. Teresa Aloi

                                                   

La Corte di Giustizia dell’Unione europea con la sentenza del 13 ottobre 2022 è intervenuta in relazione ad un giudizio riguardante il tema della discriminazione sul luogo di lavoro.

La domanda di pronuncia pregiudiziale verteva sull’interpretazione degli artt. 1 e 2, paragrafo 2, lett. a) e dell’art. 8, paragrafo 1, della Direttiva 2000/78/CE del Consiglio che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. Tale domanda era stata presentata nell’ambito di una controversia tra una donna di fede musulmana che indossava il velo islamico ed una società cooperativa a responsabilità limitata la cui attività principale consisteva nella locazione e nella gestione di alloggi popolari.

La controversia era sorta in merito alla mancata presa in considerazione della candidatura spontanea proposta dalla donna per un tirocinio di sei settimane, non retribuito, in seguito al suo rifiuto di rispettare il divieto imposto dall’impresa ai propri dipendenti, di manifestare, in particolare, attraverso l’abbigliamento, le proprie convinzioni religiose, filosofiche o politiche. La donna, infatti, durante un colloquio con i responsabili della società aveva affermato che si sarebbe rifiutata di togliersi il velo per conformarsi alla politica di neutralità promossa all’interno dell’impresa e prevista dal suo stesso regolamento. Successivamente, avrebbe ripresentato la propria domanda di tirocinio proponendo di indossare un altro tipo di copricapo, ma la società, anche in questo caso, aveva opposto un diniego sul presupposto che nei propri locali non è consentito l’uso di alcun tipo di copricapo, indipendentemente se si tratta di un cappello, di un berretto o di un velo.

A seguito di tali rifiuti la donna si è rivolta, dapprima, all’ente pubblico indipendente competente per la lotta contro la discriminazione in Belgio, segnalando di essere vittima di una forma di discriminazione, poi al Tribunale del Lavoro di Bruxelles di lingua francese, con un’azione inibitoria sul presupposto che la società a cui aveva sottoposto la propria candidatura avesse violato le disposizioni della legge generale belga contro le discriminazioni, in quanto riteneva che la mancata conclusione del contratto di tirocinio sarebbe fondata direttamente o indirettamente sulle sue convinzioni religiose.

Davanti al Tribunale del Lavoro, giudice del rinvio, la società, richiamando precedenti sentenze della Corte di Giustizia UE[1], si difendeva affermando che il proprio regolamento di lavoro non genera una discriminazione diretta, poiché si tratta in maniera identica tutti i dipendenti dell’impresa, imponendo loro, in maniera generale ed indiscriminata una neutralità di abbigliamento che osta all’uso di segni visibili delle proprie convinzioni religiose, filosofiche o politiche.

Il Tribunale, nell’analizzare il caso, ha ritenuto necessario sospendere il giudizio e sottoporre alla Corte di Giustizia UE alcune questioni pregiudiziali: se, “la religione o le convinzioni personali” presenti nella Direttiva 2000/78/CE debbano essere interpretate come due aspetti di uno stesso criterio protetto o, al contrario, come due criteri distinti e se il divieto di portare un segno o un indumento connotato, previsto dal regolamento di lavoro dell’impresa, costituisca una discriminazione diretta basata sulla religione.

Premesso che, la Direttiva 2000/78/CE riguarda sia la discriminazione diretta (differenza di trattamento basata su una caratteristica precisa) che la discriminazione indiretta (disposizione, criterio o pratica apparentemente neutra ma suscettibile di produrre un effetto sfavorevole per una o più persone determinate appartenenti alle categorie svantaggiate), essa ha come scopo di garantire che le persone con una determinata religione o convinzione personale, disabilità, età o orientamento sessuale non siano oggetto di discriminazione e possono godere della parità di trattamento sul luogo di lavoro.

Gli giudici europei rispondono tracciando i confini entro i quali un datore di lavoro può muoversi, bilanciando i diversi interessi in gioco: la libertà personale e la libertà d’impresa.

La Corte UE riguardo la prima questione pregiudiziale sollevata dal Tribunale del Lavoro, osserva che, l’art. 1 della Direttiva 2000/78/CE deve essere interpretato nel senso che l’espressione “religione o le convinzioni personali” in esso contenuta, costituisce un solo ed unico motivo di discriminazione che comprende tanto le convinzioni religiose quanto le convinzioni filosofiche o spirituali. La Corte ricorda, a tal proposito, che dalla sua giurisprudenza risulta che il motivo di discriminazione basato sulla “religione o le convinzioni personali” deve essere distinto dal motivo attinente alle “opinioni politiche o qualsiasi altra opinione”, come risulta dall’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

I giudici europei, inoltre, precisano che, anche una norma interna, come quella adottata dall’impresa, può determinare una differenza di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali qualora venga dimostrato, compito che spetta ai giudici degli Stati membri, e, nello specifico, al Tribunale del Lavoro di Bruxelles, che l’obbligo apparentemente neutro comporta, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia.

La differenza di trattamento, secondo la Corte di Giustizia UE, non costituirebbe una discriminazione indiretta qualora fosse oggettivamente giustificata da una finalità legittima e qualora i mezzi impiegati per il conseguimento di tali finalità fossero appropriati e necessari. Sebbene la volontà di un datore di lavoro di adottare, nei rapporti con i clienti, una neutralità politica, filosofica o religiosa, può essere considerata legittima, in quanto espressione della libertà d’impresa, riconosciuta dall’art. 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, tuttavia, la CGUE ha precisato che tale semplice volontà di condurre una politica di neutralità, non è sufficiente, in quanto tale, a giustificare, in modo oggettivo, una differenza di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, dato che il carattere oggettivo di una tale giustificazione può ravvisarsi solo a fronte di un’esigenza reale di tale datore di lavoro, che spetta a quest’ultimo dimostrare.

Tale interpretazione è ispirata all’intento di incoraggiare per principio, la tolleranza ed il rispetto, nonché l’accettazione di un maggior grado di diversità e di evitare uno sviamento della creazione di una politica di neutralità all’interno dell’impresa a danno dei dipendenti che rispettano precetti religiosi che impongono di portare una determinata tenuta di vestiario.

L’altra questione sollevata dal giudice del rinvio mira a chiarire il margine di discrezionalità di cui dispongono gli Stati membri per introdurre o mantenere, per quanto riguarda il principio della parità di trattamento, disposizioni più favorevoli di quelle fissate dalla Direttiva 2000/78/CE, ai sensi dell’art. 8, paragrafo 1, della stessa.

La Corte di Giustizia europea, riguardo all’interpretazione di tale norma ha dichiarato che le disposizioni costituzionali nazionali che tutelano la libertà di religione possono essere prese in considerazione come disposizioni più favorevoli ai sensi dell’art. 8, paragrafo 1, nell’ambito dell’esame del carattere appropriato di una differenza di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali. Tale dichiarazione ha la sua fonte nella convinzione della Corte UE che la Direttiva, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, lascia un margine di discrezionalità agli Stati membri, in particolare per quanto riguarda la conciliazione dei diversi diritti ed interessi di cui trattasi. Tale margine di discrezionalità in mancanza di consenso a livello dell’Unione, tuttavia, deve andare di pari passo con un controllo che spetta ai giudici dell’Unione stessa, consistente, in particolare, nel verificare se le misure adottate a livello nazionale siano giustificate in linea di principio e se siano proporzionate.

Da ciò discende che l’art. 8, paragrafo 1, della Direttiva 2000/78/CE non osta a che un giudice nazionale riconosca, nell’ambito del bilanciamento degli interessi divergenti, una maggiore importanza a quelli relativi alla religione o alle convinzioni personali rispetto a quelli risultanti, in particolare, dalla libertà d’impresa, purchè ciò derivi dal suo diritto interno.

A tal proposito la Corte di Giustizia dell’Unione europea precisa, però, che il margine di discrezionalità riconosciuto agli Stati membri non può estendersi fino a consentire a quest’ultimi o ai giudici nazionali di scindere, in plurimi motivi, uno dei motivi di discriminazione elencati tassativamente all’art. 1 della Direttiva, salvo mettere in discussione il testo, il contesto e la finalità di tale motivo e pregiudicare l’effetto utile del quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro istituito dal diritto dell’Unione. Poiché il motivo di discriminazione costituito dalla “religione o le convinzioni personali” copre tutti i dipendenti allo stesso modo, un approccio segmentato di tale motivo, avrebbe la conseguenza di creare sottogruppi di dipendenti e di pregiudicare così il quadro generale per la parità di trattamento istituito dalla Direttiva 2000/78/CE.

Alla luce di quanto precede, la Corte ritiene che l’art. 1 della Direttiva debba essere interpretato nel senso che esso osta a che disposizioni nazionali che garantiscono la trasposizione di tale Direttiva nel diritto nazionale, le quali sono interpretate nel senso che le convinzioni religiose e quelle filosofiche costituiscono due motivi di discriminazione distinti, possano essere considerate, per quanto riguarda il principio della parità di trattamento, disposizioni più favorevoli di quelle contenute nella Direttiva, ai sensi dell’art. 8, paragrafo 1, della stessa. Pertanto, una disposizione di un regolamento di lavoro di un’impresa che vieta ai propri dipendenti di manifestare verbalmente, con l’abbigliamento o in qualsiasi altro modo, le proprie convinzioni religiose o filosofiche, di qualsiasi tipo, non costituisce una discriminazione diretta “basato sulla religione o sulle convinzioni personali”, ai sensi della Direttiva, a condizione che tale disposizione sia applicata in maniera generale ed indiscriminata.

Il diritto alla libertà di coscienza e di religione, sancito dall’art. 10, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CEDU), che costituisce parte integrante del contesto, rilevante ai fini dell’interpretazione della Direttiva, corrisponde al diritto garantito all’art. 9 della Convenzione dei Diritti dell’Uomo. In conformità alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione sancito all’art. 9 della Convenzione è “uno dei fondamenti di una società democratica e costituisce nella sua dimensione religiosa, uno degli elementi più vitali che contribuiscono alla formazione dell’identità dei credenti o della loro concezione della vita, nonché un bene prezioso per gli atei, gli agnostici, gli scettici o gli indifferenti, contribuendo al pluralismo, duramente conquistato nel corso dei secoli e connaturato ad una tale società (CEDU, 15 febbraio 2001, Dahlab c. Svizzera, ricorso n. 42393/98).

La questione velo si o velo no, tiene banco da decenni in Europa ed anche la Corte europea dei Diritti Umani si è spesso pronunciata sul tema e sulle potenziali violazioni del diritto alla libertà di pensiero, coscienza e religione che ne deriverebbero.

Il primo caso sul quale Strasburgo ha emesso una sentenza sull’uso del velo islamico risale al 2001, come sopra riportato (caso Dahlab c. Svizzera), dove la ricorrente era un’insegnante di scuola primaria convertita all’Islam. L’appello alla CEDU era arrivato dopo il divieto di indossare il velo in classe. In quel caso la Corte europea considerò il no al velo giustificato e proporzionato non solo, al fine di tutelare i diritti e le libertà dei giovani studenti, facilmente influenzabili, ed evitare lo sviluppo del proselitismo, ma anche in quanto simbolo imposto alle donne da un precetto coranico discriminatorio tra i due sessi non in linea con i principi che ogni insegnante dovrebbe trasmettere ai propri allievi.

Nel 2014 (CEDU, 1 luglio 2014, S.a.s. contro Francia, ricorso n. 43835/11) la Corte negò il contrasto con la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo da parte della legge francese dell’11 ottobre 2010 contenente il divieto di indossare, negli spazi pubblici, qualunque capo di abbigliamento che coprisse il volto. In questo caso la CEDU ha riconosciuto che il divieto intacca sia il diritto alla vita privata, protetto dall’art. 8 della Convenzione dei diritti dell’uomo, che la libertà religiosa, tutelata dall’art. 9, ma ritiene che “la Francia  ha un ampio margine di apprezzamento” in quanto la restrizione imposta rientra in “quelle misure necessarie in una società democratica….per la protezione dei diritti e delle libertà altrui”, che entrambe le norme autorizzano. In concreto, coprire il volto viola, secondo la Corte, il “diritto altrui di abitare uno spazio di socializzazione che facilita il vivere insieme” ma la legge francese è legittima in quanto soddisfa i requisiti di proporzionalità cui il margine di apprezzamento è sottoposto, prevedendo una sanzione amministrativa di lieve entità (150.00 euro) ed un divieto limitato al volto e non ad un qualsiasi abbigliamento religiosamente connotato o tradizionale, quale il semplice velo, il chador o la jilaba, che risultano in generale ammessi nello spazio pubblico (salve le restrizioni per i luoghi di lavoro statali). La Corte di Strasburgo, con riferimento al principio di “non discriminazione” concorda che la misura legislativa francese pur essendo formulata in termini neutrali, è suscettibile di dispiegare effetti pregiudizievoli in particolare sul gruppo delle donne di fede islamica che intendono indossare il velo integrale per motivi religiosi, per cui potrebbe dare origine ad una “discriminazione indiretta”. Questa deve ritenersi, tuttavia, esclusa in quanto la misura legislativa francese risponde ad una giustificazione obiettiva e ragionevole e sussiste una relazione di proporzionalità tra i mezzi impiegati e gli obiettivi perseguiti. Il divieto è giustificato anche nel caso Belcacemi e Oussar proprio contro il Belgio (CEDU, 11 luglio 2017, ricorso n. 37798/13). Anche in quell’occasione il no al velo nei luoghi pubblici non fu considerato una violazione degli articoli della Convenzione, art. 8 sul diritto al rispetto della vita familiare e privata, art. 9 sulla libertà di pensiero, di coscienza e di religione e l’art. 14 sul divieto di discriminazione.

La legge adottata dal Belgio, come quella adottata in Francia, aveva per la Corte di Strasburgo l’obiettivo di favorire la “convivenza civile” all’interno della società e “la protezione dei diritti e delle libertà altrui”; il divieto era giustificabile, in linea di principio, solo nella misura in cui mirava a garantire le condizioni di “convivenza”. Si trattava di tutelare una condizione di interazione tra individui che, per lo Stato, era essenziale al fine di garantire il funzionamento di una società democratica.

 

Avv. Teresa Aloi,  Foro di Catanzaro

 

[1] CGUE 14 marzo 2017, C-157/15 e CGUE 14 marzo 2017, C-188/15.