A CURA DI

AVV. ANTONELLA ROBERTI

CAPACITÀ DISTINTIVA E SECONDARYMEANING.CASISTICA A CONFRONTO NELL’AMBITO DELL’UNIONE EUROPEA

Autore: Avv. Prof. Maurizia Venezia

 

Il marchio è il segno distintivo utilizzato dall’imprenditore per contraddistinguere i propri prodotti e/o servizi da quelli di altri imprenditori per servizi identici, affini, succedanei o che, nella rappresentazione dei consumatori, possono farsi derivare dalla medesima fonte produttiva.

Proprio per le sue funzioni di indicazione di provenienza, garanzia di qualità e strumento concorrenziale di penetrazione sul mercato, un segno, sia esso stesso denominativo, figurativo, misto etc, deve essere in grado di distinguere il prodotto o servizio cui inerisce dagli altri della medesima categoria. Dunque il marchio non può “appiattirsi” nella descrizione generica di caratteristiche, qualità, funzione del suo oggetto o addirittura non può consistere nel termine comunemente utilizzato nel linguaggio per designare il genus di appartenenza del prodotto o del servizio. Questo è il concetto di “capacità distintiva” del marchio, requisito indispensabile per una sua tutela “monopolistica” attraverso la registrazione.

Il codice di proprietà industriale, all’art.13, stabilisce che non possono essere registrati come marchi “i segni privi di carattere distintivo e in particolare quelli costituiti esclusivamente dalle denominazioni generiche di prodotti o servizi o da indicazioni descrittive che ad essi si riferiscono”, proseguendo poi con una esemplificazione di casi quali “i segni che in commercio possono servire a designare la specie, la quantità, la qualità, la destinazione, il valore, la provenienza geografica ovvero l’epoca di fabbricazione del prodotto o della prestazione del servizio o altre caratteristiche del prodotto o servizio”.

Quanto più la struttura del segno ed il suo significante si dissociano dalle caratteristiche intrinseche ed estrinseche dell’oggetto da contraddistinguere, tanto più il marchio godrà di tutela, ovvero potrà impedire ad altri l’uso o la registrazione di segni non solo identici, ma simili o che vi si avvicinino anche per un solo elemento. Dunque un marchio sarà forte quando fantasioso, inconsueto, astratto dal suo oggetto (Rolex[1], Dior[2]); sarà debole se collegato concettualmente con i relativi prodotti o servizi (Divani&Divani[3], Amplifon[4]).

Ciò posto, un marchio può essere considerato valido anche se sia originariamente generico e privo  di capacità distintiva, ove, a seguito del suo uso protratto nel tempo e del successo dello stesso nel pubblico dei consumatori ed utenti, si dimostri che abbia acquisito una attitudine individualizzante.

E’ il cd secondarymeaning, normativamente previsto dall’art 13, secondo comma, cpi: “In deroga al comma 1 possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa i segni che prima della domanda di registrazione, a seguito dell’uso che ne sia stato fatto, abbiano acquistato carattere distintivo”.

Ovvero, la possibilità che un termine originariamente generico e descrittivo possa acquisire un significato diverso, che lo rapporta al prodotto proveniente da una determinata fonte produttiva differenziandolo rispetto al genus cui lo stesso appartiene. Questo per effetto della percezione del pubblico dei consumatori ed utenti che lo associa ad una determinata impresa e non ad altre.

E’ quanto statuito nel caso Louboutin: dal momento che una consistente fetta di consumatori di scarpe da donna con il tacco alto identificava le stesse come provenienti da Christian Louboutin, proprio per la caratteristica suola rossa, tale aspetto del prodotto, accanto ad una funzione meramente estetica, aveva così acquisito, per effetto del favore incontrato nel pubblico, anche un importante effetto distintivo, essendosi verificato l’effetto del “secondarymeaning” a beneficio della prestigiosa maison francese.

Di recente, infatti, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sez. Grande, nella sentenza  resa il 12/06/2018 n.C-163/16, ha statuito che nella mente del consumatore il colore rosso della suola fosse attribuito alla celebre maison Christian Louboutin per effetto di secondarymeaning (e che la concorrente  Yves Saint Laurent avrebbe potuto continuare a produrre scarpe con la suola rossa, a condizione che anche il resto della scarpa fosse rosso, non solo la suola).

Così, anche in altri casi, l’acquisto del secondarymeaning è stato determinante. Ad esempio, nella controversia “Rotoloni” (cfr. CC n.7738/2016)

La Corte di Cassazione nella sentenza n.7738/2016, in relazione alla questione sorta sull’effettivo  potere individualizzante del termine “Rotoloni”, oggetto di registrazione oltre che come segno distintivo anche come parte di un marchio complesso, statuiva che la parola di per sé inizialmente priva di qualsivoglia capacità distintiva, l’avesse acquisita per effetto dell’operare del secondarymeaning: «massicce attività di pubblicizzazione del marchio possono indurre ad una radicale trasformazione della sua percezione distintiva nel mercato dei consumatori, nel quale si sia diffusa l’identificazione del prodotto contraddistinto dal marchio, sebbene questo consti in origine di un termine generico».

Similmente, è accaduto per i marchi Divani&Divani e Poltrone & Sofà che, pur costituendo termine utilizzato nel comune linguaggio per designare i beni cui ineriscono – poltrone e divani appunto - per effetto del loro successo nei rapporti commerciali, reputazione e notorietà acquisite, hanno acquisito  nel tempo l’attitudine a distinguere i prodotti cui sono apposti come marchi da quelli dei concorrenti. E la prova del secondarymeaning potrà essere fornita, ad esempio, da elementi, quali “la quota di mercato detenuta dal marchio, l’intensità, l’estensione geografica e la durata dell’uso del marchio, l’entità degli investimenti effettuati dall’impresa per promuoverlo, la percentuale degli ambienti interessati che identifica, grazie al marchio, il prodotto o il servizio come proveniente da una determinata impresa, nonché le dichiarazioni delle Camere di Commercio o di altre associazioni professionali” (cfr. Corte di Giustizia (7.7.2005, C-353/03 ed i cause riunite C-108/97 e C-109/97).

Al contrario, nel celebre caso “CLINIQUE” la rinomanza del marchio, consolidatasi nel tempo, così da dar luogo al formarsi del secondarymeaning, lascia inalterata la sua connotazione di marchio debole, se privo di intrinseca attitudine distintiva.

Questo è quanto affermato dalla Cassazione in una recente sentenza (Cass. civ., sez. I, 7 dicembre 2016, n. 25168), che ha visto coinvolti il noto marchio di prodotti cosmetici (CLINIQUE) e un centro estetico che aveva deciso di utilizzare proprio il termine CLINIQUE per individuare alcuni suoi prodotti.

Nel caso in oggetto la Clinique Laboratories LLC, società statunitense appartenente al gruppo Estee Lauder, operante nel settore dei prodotti cosmetici, aveva citato in giudizio Beauty Full Srl, centro estetico con sede a Gallarate (VA), per concorrenza sleale per agganciamento e contraffazione del marchio CLINIQUE costituiti dall’utilizzo ad opera della convenuta del termine CLINIQUE per identificare alcuni suoi prodotti estetici, pur insieme ad altre parole.

La Suprema Corte ha ritenuto invece che il termine CLINIQUE, appartenente al comune linguaggio come sostantivo ed aggettivo,  sia utilizzato sul mercato per contraddistinguere molteplici attività imprenditoriali nei più diversi settori,   più o meno vicini a quello sanitario  e cura della persona e che, nonostante il segno distintivo avesse indubbiamente acquisito una certa rinomanza in forza dell’uso protratto nel tempo (e quindi un secondarymeaning), tale aspetto non produrrebbe l’effetto di far venire meno il suo carattere di debolezza, in mancanza di “forte capacità distintiva”.

Per effetto di tale motivazione veniva confermata la sentenza dei giudici di secondo grado, e statuito l’assenza di alcuna responsabilità del centro estetico per contraffazione o condotta anticoncorrenziale, in quanto in presenza di un marchio debole, quale “CLINIQUE”, anche minime modificazioni sarebbero sufficienti a differenziare il proprio segno. Ciò senza in alcun cenno alla rinomanza acquisita dal marchio “CLINIQUE” nel tempo, del favore incontrato dallo stesso nell’apprezzamento dei consumatori, stante la particolare ed elevata qualità dei prodotti relativi all’estetica cui viene apposto dalla società Clinique Laboratories LLC.

 

[1] Per la configurazione del marchio Rolex come marchio “forte”, cfr Corte d’Appello di Torino dicembre 2019; www.ufficiobrevetti.it.

[2] Reputato marchio forte dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia: C Giustizia, SEZ I, SN 23 aprile 2009 C-59/08, che definisce espressamente “Dior” “marchio di prestigio”.

[3] Cfr. Corte di Giustizia (7.7.2005, C-353/03 ed in cause riunite C-108/97 e C-109/97.

[4] Cfr. Tribunale Milano, 29.3.2016.