A CURA DI

AVV. ANTONELLA ROBERTI

VERSO L'INTRODUZIONE DI UN DIVIETO DI PRODOTTI OTTENUTI CON IL LAVORO FORZATO: NOTE PRELIMINARI

Autore: Dott. Francesco Buccellato

 

Sommario: 1. Una Proposta di Regolamento sui prodotti ottenuti con lavoro forzato - 2. Dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità e divieto di prodotti ottenuti con lavoro forzato - 3. Quale torto negoziale?

 

1. Una Proposta di Regolamento sui prodotti ottenuti con lavoro forzato. - Il 14 settembre 2022 la Commissione ha presentato la “Proposta di Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio che vieta i prodotti ottenuti con il lavoro forzato[1] sul mercato dell’Unione”. L’iniziativa, dichiaratamente fondata sugli articoli 114 e 207 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE)[2], segue alla “Proposta di Direttiva relativa al dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità”[3], sul presupposto della vigenza della Direttiva 36/2011 concernente la prevenzione e la repressione del forced labour (e della tratta di esseri umani)[4].

Annunciata per la prima volta dalla Presidente Von der Leyen nel suo discorso sullo stato dell'Unione del 15 settembre 2021[5], preceduta dall’enunciazione dei suoi elementi fondanti nella “Comunicazione della Commissione sul lavoro dignitoso in tutto il mondo” del 23 febbraio 2022[6], la Proposta di Regolamento fa divieto agli operatori economici di immettere e mettere a disposizione sul mercato dell'Unione o di esportare dal mercato dell'Unione prodotti ottenuti con ricorso al forced labour (la proposta – è precisato nel medesimo art. 1 - non disciplina il ritiro di prodotti che hanno raggiunto gli utilizzatori finali nel mercato dell'Unione).[7]

Il testo normativo in itinere è assai complesso, articolandosi su molteplici ambiti disciplinari – amministrativo, doganale, civile/commerciale, lavoristico, penale, internazionale, processuale - e non è questo il luogo per tentarne una lettura d’insieme, prematura ma soprattutto inibita ‘in solitaria’[8]. Ormai a valle delle consultazioni dei portatori di interessi e delle valutazioni d’impatto, di cui si dà conto nella Relazione[9], è forse di qualche interesse richiamare brevemente l’attenzione su un profilo che sembra centrale nell’articolato, ancorché esso risulti all’apparenza trascurato: quello delle conseguenze in termini di responsabilità civile, negoziale, dell’attuazione del divieto.

Penso alle conseguenze patrimoniali a riguardo delle relazioni tra soggetti/operatori economici coinvolti nella vicenda quando, ai sensi dell’art. 20, comma 2 «le autorità doganali non autorizzano l'immissione in libera pratica o l'esportazione di tale prodotto e inseriscono la seguente dicitura nel sistema informatico doganale e, ove possibile, nella fattura commerciale che accompagna il prodotto e in qualsiasi altro documento di accompagnamento pertinente: "Prodotto ottenuto con il lavoro forzato — Immissione in libera pratica/esportazione non autorizzata"»; il più ampio contesto è quello di cui all’art. 6, commi 4 e 5, in forza dei quali, quando le autorità competenti accertano una violazione del divieto di prodotti ottenuti con il lavoro forzato (art.3), adottano una decisione contenente il divieto di immettere o mettere a disposizione sul mercato dell'Unione i prodotti in questione e di esportarli, e l'ordine, rivolto agli operatori economici oggetto dell'indagine, di ritirare dal mercato dell'Unione i prodotti in questione che sono già stati immessi o messi a disposizione sul mercato e di smaltire i rispettivi prodotti conformemente al diritto nazionale coerente con il diritto dell'Unione (art. 6, comma 4). Se restano ineseguiti, tali ordini sono attuati d’autorità (art.6, comma 5).

Su chi grava in definitiva la perdita patrimoniale derivante dal divieto e dall’osservanza (spontanea o coatta) agli ordini ora richiamati?

 

2. Dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità e divieto di prodotti ottenuti con lavoro forzato - Come esplicitato nella Relazione, la Proposta di Regolamento è collegata alla Proposta di Direttiva relativa al dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità[10]. Il rapporto tra i due testi normativi è così riassunto: il secondo (testo normativo) «riguarda la condotta delle imprese e i processi di diligenza per le imprese che rientrano nel suo ambito di applicazione e non prevede misure volte specificamente a impedire l'immissione e la messa a disposizione sul mercato dell'UE di prodotti ottenuti con il lavoro forzato. La proposta si concentra sull'istituzione di un sistema, all'interno del diritto societario e del governo societario, per far fronte alle violazioni dei diritti umani e ambientali nelle attività svolte dalle società e dalle loro filiazioni e nelle catene del valore cui partecipano. Per sanare le violazioni, le società sono tenute a collaborare con i partner commerciali nelle catene del valore cui partecipano. Il disimpegno rimane l'opzione ultima cui fare ricorso quando gli impatti negativi non possono essere attutiti. Pur prevedendo sanzioni in caso di inosservanza degli obblighi di diligenza, la proposta non impone agli Stati membri o alle società di vietare l'immissione e la messa a disposizione di qualsiasi prodotto sul mercato.». E’ quello che fa viceversa la nuova iniziativa in commento, e con norma di regolamento, quando il prodotto sia ottenuto con ricorso al forced labour.

Chiosa il CESE che (nell’ambito dell’iter approvativo in corso) «si pone l’esigenza di chiarire in che modo i due atti legislativi interagiranno nella pratica.»[11].

E in effetti, con riguardo al quesito posto in chiusura del precedente paragrafo, premesso che possono intuitivamente immaginarsi molteplici scenari, negoziali e non, sui quali i richiamati divieti e ordini di fonte regolamentare possono impattare, occorre chiedersi se e con quali esiti tale non irrilevante profilo applicativo possa affrontarsi e risolversi sulla base delle distinte future normative di attuazione, da parte degli Stati membri, delle regole sulla responsabilità civile che la Proposta di Direttiva reca, significativamente, a riguardo del configurarsi di un "rapporto d'affari consolidato"[12] e di una "catena del valore"[13].

 

3. Quale torto negoziale? - Mi limito qui a segnalare tre distinti profili problematici a riguardo del configurarsi di responsabilità derivanti dalla violazione del divieto; rispetto ai quali ogni sviluppo sembra allo stato prematuro.

In primo luogo, come è noto, la Proposta di Direttiva ha come destinatarie soltanto le imprese di più grande dimensione[14], laddove l’emanando Regolamento non esclude viceversa le PMI dal novero dei suoi destinatari. Di fronte a una indistinta pletora di potenziali soggetti passivi del divieto qui oggetto di esame (come degli obblighi di ritiro e smaltimento), riterrei poco perspicuo ipotizzare e configurare un regime di responsabilità diversificato su base dimensionale, anche quando esso si sovrapponga a quello derivante dall’applicazione della Proposta di Direttiva.

In secondo luogo, a ben vedere la Proposta di Direttiva pone le premesse per un’azione risarcitoria a istanza del soggetto leso nei suoi “diritti umani”, rendendo tutti i soggetti a parte della ‘catena del valore’, e significativamente chi è a capo della stessa, potenzialmente corresponsabili nei confronti dei danneggiati in caso di inottemperanza alla prescritta due diligence[15]. Ma il quesito qui in esame è differente; ed è quello di stabilire chi, tra i soggetti coinvolti come attori della ‘catena del valore’, debba sopportare, quale debitore di ultima istanza(in toto o pro rata), le conseguenze patrimoniali dannose determinatesi in forza del divieto, con specifico riguardo alle conseguenze dell’ordine di ritiro e smaltimento[16]; l’unico ‘avviso ai naviganti’ plausibile, allo stato, è quello di guardarsi da un approccio semplicistico, che consideri investita della responsabilità la sola parte contrattuale che ha dato esecuzione alla prestazione inglobando forced labour.

In terzo luogo, sembra da rimarcare che, nella rubrica dell’art. 3, il proposto regolamento presuppone, ma in definitiva afferma (meglio, conferma) l’esistenza di un divieto, quello «di prodotti ottenuti con il lavoro forzato». Il lemma è più ampio rispetto alla prescrizione posta nel corpo dell’articolo, che è di non immettere né mettere a disposizione sul mercato dell'Unione prodotti ottenuti con il lavoro forzato, né di esportare tali prodotti.

Va detto che il legislatore comunitario tiene conto del plausibile risvolto penale che la commercializzazione di beni ottenuti con ricorso al forced labour può determinare. E infatti, a fronte delle decisioni adottate (a norma degli articoli 6 e 8 del proposto regolamento) restano impregiudicate le decisioni di natura giurisdizionale adottate dai giudici nazionali degli Stati membri nei confronti degli stessi operatori economici o prodotti (art. 8, comma 7). Non mi sembra questa soltanto una ‘porta aperta’ verso le conseguenze riconducibili alle norme di esecuzione della Direttiva 36/2011 concernente la prevenzione e la repressione del forced labour (e della tratta di esseri umani). Come è stato evidenziato[17], essa sembra aver posto le premesse per accreditare la rilevanza di una nozione di impresa schiavistica, fissando «all’art. 5 le regole inerenti la responsabilità, penale e non, delle persone giuridiche. Dunque, in collegamento con l’individuazione di soggetti che commettono in via diretta odi concorso il reato di sfruttamento del lavoro schiavistico, la norma fissa i termini di riferimento dell’imputazione alle persone giuridiche: e cioè agli enti e alle società alle quali possa dirsi riferibile, sul piano dell’attività di impresa, lo sfruttamento del forced labour, la condotta sanzionata. […]»[18].

Nella proposta di regolamento, sulla evocata premessa della illiceità dell’operazione, il focus è però piuttosto sull’operazione di commercializzazione del prodotto che incorpora forced labour. Se oggetto di divieto sono il prodotto e la sua commercializzazione, il primo è trattato alla stregua di cosa che costituisce il prezzo di un reato, evidentemente ritenuto presupposto[19], pur prescindendosi dall’accertamento in sede penale. La violazione del divieto, in coerenza al vocabolo usato, sembra prospettarsi come violazione di norma imperativa[20].

 

Dott. Francesco Buccellato, Dipartimento di Economia dell’Università di Perugia.

 

 

[1] V. artt. 1 e 3 testo COM(2022) 453 final – 2022/0269 (COD). Ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett.g) del testo normativo in itinere è definito “prodotto ottenuto con il lavoro forzato” un prodotto per il quale è stato fatto ricorso al lavoro forzato in tutto o in parte in qualsiasi fase dell'estrazione, della raccolta, della produzione o della fabbricazione, comprese le lavorazioni o trasformazioni connesse a un prodotto in qualsiasi fase della sua catena di approvvigionamento. Ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. a) è «"lavoro forzato": il lavoro forzato o obbligatorio quale definito all'articolo 2 della convenzione sul lavoro forzato del 1930 (n. 29) dell'Organizzazione internazionale del lavoro, compreso il lavoro minorile forzato;» e cioè (salvo le specificazioni di cui al comma 2) «ogni lavoro o servizio estorto a una persona sotto minaccia di una punizione o per il quale detta persona non si sia offerta spontaneamente.». V., sulla Proposta, il Parere favorevole del Comitato Economico e Sociale REX/565 (richiesto dal Parlamento il 6 ottobre 2022 e dal Consiglio il 12 ottobre), reso dall'assemblea plenaria n.575, in data 25 gennaio 2023 (con 196 voti favorevoli, 1 contrario e 4 astenuti).

[2] «L'articolo 114 TFUE stabilisce che il Parlamento europeo e il Consiglio sono tenuti ad adottare le misure relative al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri che hanno per oggetto l'instaurazione e il funzionamento del mercato interno. L'obiettivo del regolamento è evitare gli ostacoli alla libera circolazione delle merci ed eliminare le distorsioni della concorrenza nel mercato interno derivanti da divergenze tra le disposizioni legislative, regolamentari o amministrative nazionali relative all'immissione e alla messa a disposizione sul mercato dell'Unione di prodotti ottenuti con il lavoro forzato.» - così la Relazione alla Proposta, sub 2. Sulla portata anticoncorrenziale del ricorso al forced labour V. Giorgi, Forced labour e concorrenza sleale, in F. Buccellato – M. Rescigno (a cura di), Impresa e «forced labour»: strumenti di contrasto, Bologna, 2015, 181 ss.. Prosegue la Relazione chiarendo che «Ai sensi dell'articolo 207 TFUE, la politica commerciale comune è fondata su principi uniformi, ad esempio per quanto concerne la politica di esportazione. Poiché la presente proposta avrà effetti diretti e immediati sugli scambi, sotto forma di un divieto di esportazione dei prodotti ottenuti con il lavoro forzato e di un divieto di accesso al mercato dell'UE per i prodotti per i quali è dimostrato che sono stati ottenuti con il lavoro forzato, l'articolo 207 dovrebbe costituire una base giuridica.».

[3] Testo 23.2.2022 COM(2022) 71 final 2022/0051, in coerenza alla Risoluzione del Parlamento europeo del 10 marzo 2021 recante raccomandazioni alla Commissione concernenti la dovuta diligenza e la responsabilità delle imprese (2020/2129(INL)) - (2021/C 474/02).Il testo è stato approvato dalla Commissione Affari Legali (IURIS) in data 25 aprile 2023. L'allegato della proposta di direttiva, sub 1, elenca il lavoro forzato tra le violazioni dei diritti e dei divieti che figurano nei pertinenti accordi internazionali, quali la convenzione OIL n. 29 sul lavoro forzato, il protocollo del 2014 relativo alla convenzione sul lavoro forzato e la convenzione OIL n. 105 sull'abolizione del lavoro forzato. Per ogni approfondimento bibliografico rimando al mio La responsabilità civile da impatto negativo sui diritti umani di cui alla Proposta di direttiva UE in materia di corporate sustainability due diligence: profili di diritto interno funzionali al recepimento, in JUS, 1 (2023), 27-58.

[4] Su tale direttiva, F. Buccellato – M. Rescigno (a cura di), Impresa e «forced labour»: strumenti di contrasto, Bologna, 2015.

[5] Stato dell'Unione 2021 | Commissione europea (europa.eu), al link

https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/it/SPEECH_21_4701:«Voglio essere molto chiara su questo punto: l'attività imprenditoriale nel mondo, il commercio globale - tutto questo è giusto e necessario. Ma non deve andare mai a scapito della dignità e della libertà delle persone.25 milioni di persone sono costrette al lavoro forzato, con le minacce o la violenza. Non potremo mai accettare che dei lavoratori siano costretti a fabbricare prodotti - e che poi questi prodotti siano messi in vendita nei negozi europei. Proponiamo perciò di bandire dal nostro mercato i prodotti ottenuti con il lavoro forzato. I diritti umani non sono in vendita, a nessun prezzo.»

[6] Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio e al Comitato economico e sociale europeo sul lavoro dignitoso in tutto il mondo per una transizione globale giusta e una ripresa sostenibile (COM(2022) 66 final del 23.2.2022, in particolare 15 e 16. La si legge all’indirizzo web https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52022DC0066.

[7] Costituisce specifico precedente dell’iniziativa anche lo strumento di cui allo U.S.A. Public Law No: 117-78 (12/23/2021) - H.R.6256 - To ensure that goods made with forced labor in the Xinjiang Uyghur Autonomous Region of the People’s Republic of China do not enter the United States market, and for other purposes.117th Congress (2021-2022), Art. 1, comma 2; esso impone limiti all’importazione di merci prodotte con forced labour in Cina, specialmente nella Xinjiang Uyghur Autonomous Region, imponendo sanzioni. Cfr. https://www.congress.gov/bill/117th-congress/house-bill/6256/text. L’impostazione della proposta di regolamento si giustappone aquella seguita dal Regno Unito per far fronte alla violazione dei diritti umani nelle catene di fornitura.Ricordo che nel 2015 (ante Brexit) il Regno Unito ha promulgato l’Antislavery Act e con esso, sulmodello adottato nel 2010 dalla California (Transparency in Supply Chains Act), ha imposto alle imprese di più grandi dimensioni una pubblica periodica attestazione circa i passi fatti per far sì che nella ‘catena di fornitura’ non trovi spazio alcuna forma di modern slavery; affinché i consumatori non solo non debbano subire acquisti inconsapevoli di beni prodotti con sfruttamento di forced labour, ma possano concorrere a determinare il successo delle politiche di responsabilità sociale eventualmente adottate dalle imprese. Attraverso le richiamate prescrizioni ‘T.I.S.C.’ (acronimo di transparency in supply chains) di cui all’art. 54 dell’Antislavery Act il legislatore britannico impone alle imprese di attestare per ogni anno finanziario gli step fatti per i fini di cui sopra. Su tale testo normativo, a mia firma, Un modello normativo: il T.I.S.C. Report di cui al Modern Slavery Act 2015 del Regno Unito, in Il nuovo diritto delle società, 2018, 275 ss. e in Osservatorio “Giordano Dell’Amore” sui rapporti tra diritto ed economia (a cura di), Impresa, mercato e lavoro schiavistico: alla ricerca di regole efficaci, Milano 2019, 143 ss.

[8]Un approccio interdisciplinare al tema della rilevanza imprenditoriale del ricorso al forced labour in F. Buccellato – M. Rescigno (a cura di), Impresa e «forced labour», cit..

[9] Ivi, sub 3.

[10]Sub 1 (contesto della proposta).

[11]Comitato Economico e Sociale REX/565 cit., sub 1.8.

[12] Ai sensi dell’art. 3, sub (f), è "rapporto d'affari consolidato" un rapporto d'affari diretto o indiretto che, per intensità o periodo interessato, è duraturo o si prevede che lo sarà e che rappresenta una parte non trascurabile né meramente accessoria della catena del valore.

[13] Ai sensi dell’art. 3, sub (g) la "catena del valore" è l’insieme delle attività inerenti alla produzione di beni o alla prestazione di servizi da parte di una società, compresi lo sviluppo del prodotto o del servizio e l'uso e lo smaltimento del prodotto, così come le collegate attività esplicate nei rapporti d'affari consolidati della società, a monte e a valle. Per le società ai sensi della lettera a), punto iv), ai fini della prestazione degli specifici servizi considerati la "catena del valore" comprende soltanto le attività dei clienti che ricevono i prestiti, crediti o altri servizi finanziari e delle altre società appartenenti allo stesso gruppo le cui attività sono collegate al contratto in questione. La catena del valore di siffatte imprese finanziarie regolamentate non include le PMI che ricevono i prestiti, crediti, finanziamenti, assicurazioni o riassicurazioni di siffatti soggetti.

[14] Secondo le specificazioni di cui agli artt. 2 e 3, sub a). “Per quanto riguarda il cosiddetto ‘ambito d’applicazione soggettivo’ degli obblighi di diligenza (ossia quali categorie di società vi rientrano), sulla base della dimensione selezionata sono escluse le piccole e medie imprese (PMI), che comprendono le microimprese e rappresentano complessivamente circa il 99% di tutte le imprese dell’Unione”(Relazione, sub II, p. 16). Le suddette sono nondimeno considerate in relazione al fatto di poter normalmente esser a parte della “catena del valore”; risultando allora beneficiarie di specifiche norme di accompagnamento (quasi di protezione), in relazione agli oneri economici ed organizzativi che l’essere compliant richiede.”.

[15] L’art.3, sub c), della Proposta di Direttiva definisce infatti “impatto negativo sui diritti umani” quello su persone protette causato dalla violazione di uno dei diritti o dei divieti elencati nell’Allegato alla Proposta di Direttiva, Parte I, sezione 1, che include la responsabilità nei confronti dei lavoratori a carico della società/impresa sanciti dalle convenzioni internazionali elencate nell’allegato, parte I, sezione 2; rilevanti nel luogo richiamato i punti 9, 10 e 11 concernenti le violazioni del divieto di lavoro minorile, nonché i punti 12 e 13, concernenti il ricorso a ogni forma di forced labour.

[16] Nello studio richiamato supra, nota 3, 32 ss., affronto il tema similare del regresso nei confronti dell’appaltatore per il committente imprenditore / datore di lavoro chiamato al pagamento in escussione della responsabilità solidale ex lege in relazione all'obbligazione solidale prevista dall'art. 29, comma 2, d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276.

[17] M. Rescigno, Impresa «schiavistica», decentramento produttivo, imputazione dell’attività e applicazione delle regole, in F. Buccellato – M. Rescigno (a cura di), Impresa e «forced labour» cit..

[18] così M. Rescigno, op. loc. cit., proseguendo con il ricordare come «Le linee di questa responsabilità sono così sinteticamente delineate: a) la responsabilità deve discendere da condotte illecite poste «a vantaggio» della persona giuridica; b) la responsabilità deve derivare da una condotta posta da qualsiasi soggetto, che agisca a titolo individuale o in quanto membro di un organismo della persona giuridica, che detenga una posizione dominante in seno alla persona giuridica da individuarsi nel potere di rappresentanza o comunque decisionale della persona giuridica o di controllo in seno alla persona giuridica; c) la responsabilità è prevista nell’ipotesi di mancata sorveglianza o controllo dell’operato di tale soggetto che abbia reso possibile la commissione del reato, a vantaggio della persona giuridica, da parte di una persona sottoposta all’autorità di tale soggetto.».

[19] Forse non è improprio guardare agli esempi interni della confisca, muovendo dall'art. 240 c.p. (per cui nel caso di condanna, il giudice può ordinare la confisca delle cose sono il prodotto o il profitto del reato, mentre è sempre ordinata la confisca delle cose che costituiscono il prezzo del reato)ma, più nello specifico, alla confisca inflitta come sanzione amministrativa accessoria di cui alla legge 689/1981 (art. 20, comma 4) disposta in presenza di violazioni gravi o reiterate in materia di tutela del lavoro, di igiene sui luoghi di lavoro e di prevenzione degli infortuni sul lavoro, ricadente sulle cose che servirono o furono destinate a commettere la violazione e delle cose che ne sono il prodotto, anche se non venga emessa l'ordinanza-ingiunzione di pagamento (sanzione amministrativa principale).Sui profili penali rilevanti concernenti la committenza, sostanziali e processuali, A. Madeo, Forced labour e diritto penale interno, e A. Caselli Lapeschi, L’azione penale a un bivio tra delitti contro la persona e ricettazione, entrambi in F. Buccellato – M. Rescigno cit., rispettivamente 121 ss. e 163 ss.; V. Ferrante, Appalti, supply chain e doveri di controllo sull’uso del lavoro “schiavistico”, in Osservatorio “Giordano Dell’Amore” sui rapporti tra diritto ed economia (a cura di), Impresa, mercato e lavoro schiavistico: alla ricerca di regole efficaci, Milano 2019, 61 ss.

[20]Il quesito è se l'illeceità penale non possa che determinare anche l'illiceità civile o se il comportamento sanzionato penalmente deve sempre essere riqualificato civilisticamente allo scopo di verificare se si concretizzi qualche patologia del negozio giuridico, autonomamente e separatamente sanzionata. In adesione a tale seconda tesi la distinzione tra ‘reati-contratto’ e ‘reati in contratto’ su cui si sofferma una recente sentenza del Tribunale di Torino (sez. II, 13/12/2022, n.4803, fonte Giuffrè – De Iure): «Il primo caso» – è detto - «ricorre quando la norma penale vieta proprio la stipula del contratto (ad es. cessione di stupefacenti, ricettazione, corruzione etc.). Il secondo caso ricorre invece quando la norma penale sanziona la condotta posta in essere da uno dei contraenti in danno dell'altro nella fase delle trattative o nell'esecuzione del contratto. In questo caso, dunque, ciò che penalmente rileva non è l'oggetto del contratto (che di per sé può essere lecito), bensì le modalità con cui il contratto viene concluso. Fatta tale distinzione, va precisato che laddove i 'reati contratto' sono sempre nulli - anche in ambito civile - per violazione di norma imperativa, i 'reati in contratto' saranno nulli o annullabili a seconda degli interessi protetti.».