A CURA DI

AVV. ANTONELLA ROBERTI

 

CEDU: LA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO CONDANNA LA SVIZZERA PER “INAZIONE CLIMATICA”, PER NON AVER ADOTTATO SUFFICIENTI MISURE AL FINE DI MITIGARE GLI EFFETTI PRODOTTI DAI CAMBIAMENTI CLIMATICI (CEDU 9 APRILE 2024, RICORSO N. 53600/2020).

Autore: Avv. Teresa Aloi

 

Sentenza storica quella che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha pronunciato il 9 aprile scorso, con la quale ha condannato la Svizzera per aver violato l’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, ritenendo che lo Stato elvetico non avesse adottato misure sufficienti a contrastare gli effetti negativi del cambiamento climatico sulla vita dei cittadini.

Con la sentenza in commento, la CEDU, per la prima volta, lega la tutela dei diritti umani al rispetto degli obblighi sul clima; si tratta di una sentenza destinata a fare giurisprudenza avendo forza vincolante e la potenzialità di influenzare la legislazione dei 46 Paesi del Consiglio d’Europa ovvero di tutti quelli aderenti all’organo giurisdizionale europeo sui diritti dell’uomo. La pronuncia della Corte è avvenuta nel giorno in cui il Copernicus Climate Change Service (C3S), il Servizio per il Cambiamento Climatico dell’Unione europea, ha emanato il Bollettino con cui ha messo in evidenza come il mese di marzo 2024 sia stato il decimo mese di fila più caldo mai registrato, con 1,68 °C al di sopra della temperatura media e che negli ultimi 12 mesi, la temperatura ha superato il limite di 1,5 °C dai livelli preindustriali fissato dall’Accordo di Parigi del 2015[1], arrivando a 1,68 °C.

L’Accordo di Parigi si inquadra nella cornice più ampia definita dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile. Con i suoi 17 nuovi obiettivi, l’Agenda offre una visione globale ed ambiziosa di integrazione delle tre dimensioni dello sviluppo sostenibile, economica, sociale ed ecologica, pone nuove sfide di governance e genera una grande forza innovatrice nel permeare i processi decisionali e politici a tutti i livelli attraverso i principi di universalità ed integrazione.

A rivolgersi alla Corte europea è stata l’Associazione “Donne anziane per la protezione del clima”, di cui fanno parte 2.500 donne di origine svizzera con un’età media di 73 anni ed altri singoli soggetti appoggiati da Greenpeace svizzera. Le ricorrenti, attraverso certificati medici ed altre evidenze documentali, dimostravano di aver subito disagi e malesseri (come, ricoveri, cali di pressione e svenimenti, necessità di rimanere in casa) durante il periodo estivo a causa delle ondate di calore, causate dai cambiamenti climatici, con conseguenti ripercussioni negative sulla loro qualità della vita. L’associazione era stata fondata proprio per difendere gli interessi delle associate e rappresentarle in giudizio. Prima di presentare il ricorso alla Corte europea, nel 2016, le associate si erano rivolte agli Uffici del Governo Federale del proprio Stato, per chiedere l’attuazione di norme specifiche mirate alla riduzione dei livelli di emissione di GHG (acronimo di Greenhouse Gas, gas ad effetto serra) secondo gli impegni internazionali assunti con il Protocollo di Kyoto del 1997 e l’Accordo di Parigi del 2015, senza ottenere alcun risultato. Il ricorso contro l’inerzia dello Stato svizzero era stato anche oggetto di decisioni, in primo e secondo grado, presso i Tribunali competenti con dichiarazione di inammissibilità in entrambi i casi. L’omissione da parte della Svizzera di dotarsi di una politica efficace sul cambiamento climatico è stata contestata dalle ricorrenti come posta in essere in violazione di diversi principi e diritti riconosciuti dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e, in particolare, dei principi di sostenibilità e precauzione, nonché dei diritti umani (diritto alla vita ed alla salute), previsti dagli articoli 2 e 8 della Convenzione e del diritto ad un processo equo, sancito dall’art.6.

In dettaglio, i ricorrenti hanno chiesto alla Corte UE di “obbligare la Svizzera ad intervenire a tutela dei loro diritti umani e di adottare i provvedimenti legislativi ed amministrativi necessari per contribuire a scongiurare un aumento della temperatura media globale di oltre 1,5 °C, applicando obiettivi concreti di riduzione delle emissioni di gas serra”.

La CEDU, con la decisione del 9 aprile scorso, per la prima volta nella sua storia, ha condannato uno Stato per non aver agito in modo adeguato contro i cambiamenti climatici in atto (inazione climatica), rilevando come la Confederazione svizzera non avesse adempiuto ai propri doveri in aderenza a quanto disposto dalla Convenzione, non fosse stato capace di quantificare i limiti delle emissioni nazionali di gas ad effetto serra e non avesse raggiunto gli obiettivi di riduzione delle emissioni quali fissati in passato. Di conseguenza, pur riconoscendo che le autorità nazionali godono di un più ampio potere discrezionale in relazione all’adozione di leggi e misure, la Corte UE ha ritenuto che le autorità svizzere non avessero agito in tempo ed in modo appropriato per concepire, sviluppare ed attuare le leggi e le misure opportune nel caso di specie; elemento questo che ha determinato una violazione dei diritti umani. Secondo la Corte, la Svizzera sarebbe responsabile, specificamente, di due violazioni: la prima, riguardante l’inadempimento ai doveri previsti dalla Convenzione, non avendo agito tempestivamente ed in modo opportuno nel progettare, sviluppare ed implementare la legislazione adottando le misure adeguate per affrontare i problemi riguardanti i cambiamenti climatici (art. 8, Diritto al rispetto della vita privata e familiare, del domicilio e della corrispondenza); la seconda violazione, di carattere processuale, riguardante la circostanza che i Tribunali nazionali non avessero motivato adeguatamente il mancato esame nel merito del ricorso proposto dall’associazione e non avessero preso in considerazione le prove scientifiche dirette a dimostrare i danni conseguenza del cambiamento climatico quali, eventi meteorologici estremi come, periodi di siccità, frane ed inondazioni; fenomeni che presto si ritiene si verificheranno con regolarità.

La Corte europea, nella sentenza in commento, ha inizialmente specificato che può trattare le questioni derivanti dal cambiamento climatico solo entro i limiti dell’esercizio della sua competenza ai sensi delle disposizioni contenute nella Convenzione. Nello stesso tempo ha precisato che “un azione statale inadeguata per combattere il cambiamento climatico ha esacerbato il rischio di conseguenze dannose e di minacce al godimento dei diritti umani”, di conseguenza, “la situazione attuale comporta l’adozione di vincoli stringenti, confermati dalle conoscenze scientifiche che la Corte non poteva ignorare nel suo ruolo di organo giudiziario incaricato del rispetto dei diritti umani”. Essa, inoltre, ha riconosciuto che esistono indicazioni sufficientemente attendibili dell’esistenza del cambiamento climatico di origine antropico, nel senso che le attività umane hanno provocato il riscaldamento della superficie terrestre e dei suoi bacini oceanici influenzando il clima terrestre.

Come dimostrato dagli studi scientifici si può osservare una grande crescita dei gas ad effetto serra (anidride carbonica, metano, esafluoruro di zolfo e protossido di azoto) nella storia del nostro pianeta.

Prima del 1850 le emissioni di tali gas sono quasi inesistenti e stabili; a partire da tale data, invece, cominciano ad aumentare sempre più rapidamente. Questa data coincide con lo sviluppo di due fenomeni: l’inizio della crescita economica e la crescita demografica.

Gli scienziati sono stati chiari nel ritenere che è inconfutabilmente provata l’influenza dell’uomo sul sistema climatico e, al giorno d’oggi, le emissioni antropiche di gas ad effetto serra sono più elevate che mai. Secondo la Corte europea tutto questo “costituisce una grave minaccia attuale e futura al godimento dei diritti umani garantiti dalla Convenzione; gli Stati ne sono consapevoli e  sono in grado di adottare misure per affrontare il cambio del clima in modo efficace; i rischi rilevanti dovrebbero essere inferiori se l’aumento della temperatura sarà limitato a 1,5 °C rispetto ai livelli preindustriali e se si interverrà con urgenza”. Essa ha poi specificato come “gli attuali sforzi di mitigazione globale non sono risultati sufficienti per raggiungere tale obiettivo” e che il dovere principale di ogni Stato contraente è quello di adottare ed applicare nella pratica regolamenti e misure in grado di mitigare gli effetti climatici, potenzialmente irreversibili, esistenti e futuri. Nel caso specifico della Svizzera “si sono verificate alcune criticità nel processo di attuazione della normativa nazionale pertinente, compresa la mancata quantificazione da parte delle autorità svizzere di un bilancio del carbonio[2] e l’assenza di una limitazione nazionale alle emissioni di gas serra”. La CEDU ha poi ricordato come già in passato lo Stato elvetico non fosse riuscito a raggiungere i precedenti obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra e che le autorità svizzere non avessero agito in tempo ed in modo adeguato per ideare ed attuare le misure conformi agli obblighi di cui all’art. 8 della Convenzione che risultano rilevanti nel contesto del cambiamento climatico.

La “transizione verde”, ammonisce la Corte, è un obbligo per tutti e se tutti gli Stati avessero politiche simili a quelle dello Stato svizzero si avrebbe un progressivo aumento delle temperature, contrariamente a quanto richiesto dalla comunità internazionale. Inoltre, il fatto che molti Stati non adempiano agli impegni assunti in tema di lotta ai cambiamenti climatici non esime lo Stato convenuto dall’obbligo di impegnarsi in tal senso.

La sentenza della CEDU, rappresenta un nuovo punto di partenza per il contenzioso sul clima in Europa. Una nuova fase potrebbe coinvolgere anche l’Italia, dato che il nostro Paese è tra i firmatari degli accordi europei per la riduzione delle emissioni di CO2 oltre al fatto che, nell’ambito del procedimento che ha portato alla pronuncia della Corte, anche l’Italia ha avuto un proprio ruolo come terza parte, attraverso l’Avvocatura generale dello Stato, che ha presentato una propria memoria per supportare la posizione della Svizzera.

La decisione segna un importante precedente per le controversie sul clima a livello globale. Tutti gli Stati del Consiglio d’Europa potrebbero essere invitati dai propri cittadini a rivedere e, se necessario, a rafforzare la propria tutela climatica sulla base dei principi sviluppati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Di tali azioni ne beneficerebbero tutti gli individui, al di là della generazione a cui appartengono. La vicenda che ha riguardato l’Associazione svizzera è anche all’attenzione della Corte Internazionale di Giustizia (nota anche come Tribunale Internazionale dell’Aia) dove all’inizio dell’anno prossimo si terranno processi sugli obblighi di giustizia climatica incombenti su tutti i governi.

L’importanza delle cosiddette climate ligation (cause climatiche) nel mondo sta crescendo ed il loro numero è più che raddoppiato dal 2017 ad oggi. Tali azioni legali hanno lo scopo di imporre a governi ed aziende il rispetto di determinati standard in materia di limitazione del riscaldamento globale.

 In Italia, per esempio, si sta attendendo la decisione relativa alla c.d. “Giusta causa”, la causa climatica contro l’ENI, pendente davanti al Tribunale di Roma, promossa dalle ONG, Greenpeace Onlus e Recommon APS ed alcuni attori privati, tutti rappresentanti del mondo dell’associazionismo e della politica ambientale, al fine di obbligare l’azienda a ridurre le proprie emissioni, in linea con l’Accordo di Parigi. Il 16 febbraio 2024 si è tenuta la prima udienza; gli attori chiedono al Tribunale di dichiarare l’ENI responsabile per i danni subiti e per quelli futuri derivanti dai cambiamenti climatici, a cui l’azienda avrebbe contribuito con la sua condotta degli ultimi decenni.

Nello stesso giorno in cui ha pronunciato la sentenza in commento, la CEDU si è espressa anche su altri due casi di giustizia climatica. Il primo caso, ha riguardato un ricorso presentato da un gruppo di giovani portoghesi nei confronti di 32 Paesi accusati di non fare abbastanza per ridurre le emissioni, mentre il secondo ha avuto come protagonista un ex sindaco del Paese transalpino Granate-Synthe, secondo il quale la Francia non ha adottato misure sufficienti per limitare il riscaldamento globale. Entrambi questi ricorsi sono stati rigettati a differenza di quello presentato dall’associazione svizzera a cui la Corte UE ha riconosciuto il diritto di agire.

Per completezza argomentativa è obbligo fare accenno a qualche critica emessa nei confronti delle posizioni assunte dalla Corte europea con la sentenza pronunciata il 9 aprile scorso.

Il primo aspetto oggetto di critica riguarda il principio di legalità che alcuni ritengono sia stato violato dalla Corte UE in quanto non sussisterebbe alcuna norma della Convenzione dedicata espressamente all’ambiente per cui la Corte avrebbe stravolto il tenore oggettivo delle norme ed i limiti dell’ermeneutica giuridica; essa avrebbe arricchito il catalogo dei diritti su cui ha giurisdizione in maniera autonoma.

In secondo luogo, la CEDU avrebbe compiuto un corto circuito inammissibile tra la scienza ed il diritto superando i limiti del proprio giudizio. Va considerato che il clima, oggetto di studio da moltissimi anni da parte degli scienziati di tutto il mondo, è una variabile in larga parte non controllabile dall’uomo, anche se tra le cause dei cambiamenti climatici verificatesi negli ultimi decenni sia da ricomprendersi l’accumulazione nell’atmosfera dei gas ad effetto serra prodotti dall’attività umana. Dato che tali gas sono prodotti nel mondo attraverso le più diverse emissioni è razionalmente impossibile addebitare ad un singolo Stato la responsabilità in merito ad eventi sulle cui cause, conseguenze, modalità di prevenzione ed eliminazione gli scienziati hanno formulato ipotesi che, in quanto tali, non possono essere trasformate in norme giuridiche determinate e cogenti. Diventa, pertanto, impossibile pensare che gli Stati, attraverso lo strumento normativo, possano risolvere con urgenza problemi che a causa della globalizzazione sono di difficile soluzione da parte di un singolo Stato. La traduzione in un diritto umano universale di un’ipotesi scientifica, pur plausibile, ma bisognosa di ulteriori verifiche, costituisce una forzatura logica non accettabile.

Come afferma la Corte  europea nella sentenza in commento, la “transizione verde” è un obbligo per tutti, soprattutto per gli Stati che vengono condannati in caso di loro inadempienza, tuttavia,   è un modo troppo semplice quello di ricorrere allo strumento giudiziario per risolvere problemi che coinvolgono intere collettività, la cui soluzione va trovata ascoltando non solo gli scienziati del clima ma anche e soprattutto le legittime istituzioni della società civile e le sue diverse articolazioni nei diversi livelli di rappresentatività.

Il terzo profilo oggetto di critica riguarda la complessità della politica ambientale. Tale complessità, non riguarda soltanto l’eterogeneità delle misure giuridiche che dovrebbero incidere sul cambiamento climatico a livello di ogni singolo Stato, bensì anche l’interferenza tra le misure eventualmente assunte da ciascuno Stato e gli effetti che queste determinano sulla politica ambientale ed industriale degli altri Stati. I costi ed i sacrifici della “transizione verde” vanno allocati tra i vari Paesi con accordi internazionali che prevedano misure condivise sul fondamento di criteri di tendenziale uguaglianza che non penalizzino in modo inaccettabile il processo di sviluppo delle nazioni povere a vantaggio del godimento di più favorevoli condizioni di vita nei Paesi ricchi.

Determinate misure adottate nel rispetto della “transizione verde”, provocano costi insostenibili per le categorie sociali più povere e più marginali di ciascuno Stato. Si pensi alle misure per scoraggiare l’uso del riscaldamento tradizionale nelle abitazioni attraverso la fissazione di livelli di coibentazione termica più elevati, che importano spese per i proprietari degli appartamenti vecchi e modesti di difficile sostenibilità. E’ vero che l’innovazione arreca elementi di progresso futuro per la società, ma un’innovazione senza compensazioni, che apporta disuguaglianze e discriminazioni a carico di determinate categorie sociali è inaccettabile nello Stato sociale di diritto, quale delineato dalla Carta costituzionale italiana agli artt. 1, 3, 29 e 47.

La Corte, inoltre, nella sua pronuncia non avrebbe precisato quali sarebbero gli interventi che la Svizzera dovrebbe adottare al fine di adempiere ai propri obblighi in aderenza a quanto previsto dalla Convenzione. La sentenza, quindi, oltre a violare i principi di legalità, di separazione dei poteri e di democraticità, pregiudica anche il fondamentale principio di tassatività della norma di sfavore, sanzionando condotte che non sono state individuate con un minimo di precisione e rendendo impossibile individuare giudizialmente o, almeno, valutare in termini giuridico-economici, l’entità del pregiudizio subito dalle ricorrenti preoccupate degli effetti del cambiamento climatico sulla salute e sulla qualità della vita.

La sentenza in commento, nonostante le critiche, tuttavia, è fortemente innovativa nel delineare il rapporto tra gli Stati e gli organi di giustizia internazionale ed è destinata a vincolare tutti gli Stati che hanno approvato e ratificato la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. Essa, senza dubbio, apre la strada all’aumento dei ricorsi da parte delle associazioni ambientaliste nei confronti dei diversi Stati.

I Paesi membri dell’Unione europea si sono impegnati a rendere l’UE climaticamente neutra. Il passaggio ad una società e ad un’economia ad emissioni zero rappresenta sia una sfida urgente, dato il numero crescente di eventi meteorologici estremi, sia un’occasione per creare nuovi posti di lavoro ed opportunità economiche.

La “transizione verde” costituisce un passo necessario verso la riduzione delle dipendenze energetiche dell’Unione europea. Il Consiglio d’Europa sta attualmente lavorando a nuove norme volte a ridurre le emissioni di almeno il 55% rispetto ai livelli del 1990 entro il 2030 e raggiungere il livello di emissioni pari a zero entro il 2050.

 

Avv. Teresa Aloi,  Foro di Catanzaro

 

[1] L’Accordo di Parigi è un Trattato Internazionale firmato da 194 Paesi e dall’Unione europea che mira a limitare il riscaldamento medio globale al di sotto dei 2 gradi Celsius ed a proseguire gli sforzi per circoscriverlo a 1,5 °C al fine di evitare le conseguenze catastrofiche del cambiamento climatico. L’Accordo, raggiunto il 12 dicembre 2015, è stato aperto alla firma il 22 aprile 2016 in occasione della Giornata della Terra, durante una cerimonia tenutasi a New York ed è entrato in vigore il 4 novembre dello stesso anno; l’Italia lo ha ratificato con la legge 204/2016 ed è entrato in vigore nel nostro Paese l’11 dicembre 2016.

[2] Il termine “bilancio del carbonio” (CO2) indica la quantità di CO2 che può essere prodotta complessivamente pro capite per permettere di limitare il riscaldamento globale a 1,5 °C. Con la ratifica dell’Accordo di Parigi, la Svizzera si è impegnata a ridurre le proprie emissioni del 50% entro il 2030 ed a limitare il riscaldamento globale a 1,5 °C. Per rimanere all’interno del bilancio senza emissioni negative lo Stato elvetico dovrebbe raggiungere le zero emissioni nette entro il 2040.

Secondo il progetto Global Carbon, nel bilancio mondiale del carbonio rimangono 380 miliardi di tonnellate di CO2. Questa è la quantità di anidride carbonica che possiamo rilasciare ed avere ancora il 50 % di possibilità di evitare 1,5 gradi di riscaldamento.