A CURA DI

AVV. ANTONELLA ROBERTI

ISTITUZIONI EUROPEE IN CRISI DI IDENTITÀ: SERVIREBBE UN NUOVO DE GASPERI?

 Autore: Prof. Claudio De Rose

 

 

  1. Segnali di crisi di identità istituzionale dell’Unione Europea
  2. Il magistero istituzionale europeo ed internazionale di Alcide De Gasperi

 

  1. Segnali di crisi di identità istituzionale dell’Unione Europea

1.1 Partendo da Pericle e con uno sguardo ai Trattati europei, passando dalla Germania.

Sono successi e stanno succedendo in Europa fatti e misfatti che sempre più sembrano allontanare l’Unione europea dal suo disegno istituzionale originario, che sta a fondamento della sua costituzione sostanziale, scritta o non scritta che sia, il che suscita l’impressione che si stia delineando una crisi di identità istituzionale dell’Unione europea.

Ed infatti, il crescente disuso e il travisamento  degli strumenti istituzionali di cui l’Unione si è munita, come pure la sostituzione degli stessi con strumenti improvvisati e non normativamente previsti e disciplinati (quali le c.d. “troike” e la leadership del Capo di Governo di uno Stato membro) sono sintomi di sfaldamento dell’identità ordinamentale di base e possono portare alla sfiducia verso la stessa. A danno, evidentemente, dei popoli e dei cittadini europei, per i quali quelle Istituzioni sono state create.

Per rendere concretamente l’idea sembra opportuno ricordare quanto diceva Pericle a proposito della costituzione di Atene antica: “Abbiamo una costituzione che non imita la legge dei vicini, in quanto noi siamo più d’esempio agli altri che imitatori. E poiché essa è retta in modo che i diritti spettino non ai pochi, ma alla maggioranza, si chiama democrazia”. Sono poche, semplici ma efficacissime parole riportate da Tucidide (la citazione è in Pericle e la Grecia classica”, in Grandangolo –Storia, Le grandi Collane del Corriere della Sera, volume a cura di Cinzia Berazot, 2015 RCS MediaGroup S.p.A, Divisione Media, Milano), che ci portano subito al cuore del problema.

Ed infatti, l’Europa unita è nata per proporsi, agli Stati che desiderano farne parte e ne condividono gli ideali ma anche al Resto del Mondo, come un esempio di convivenza pacifica, democratica e proficua tra popoli diversi,in virtù del suo ordinamento istituzionale del tutto inedito ed originale, dapprima comunitario e poi unitario e di esempio essa è stata, infatti, per gran parte dei suoi quasi settanta anni di esistenza. Oggi, invece, essa tende ad adottare moduli e metodologie istituzionali mutuati da altri ordinamenti, in particolare da quello di uno dei suoi Stati membri, cioè dalla Germania, con inversione, quindi, dell’ordine dei fattori senza alcuna certezza, però, che il prodotto finale non cambi.

Ciò accade per effetto di una sorta di unione personale, caratterizzata dalla convergenza nella Signora Merkel, da un lato, della funzione di Cancelliera della Germania, un Premier munito di forti poteri seppure democraticamente conferitile e, dall’altro, della leadership indiscussa dell’Unione Europea, acquisita sul campo attraverso un fattivo presenzialismo in tutti i problemi più importanti con i quali l’Europa, ma soprattutto i suoi Stati membri, si sono cimentati e devono tuttora cimentarsi, nel comune interesse dell’una e degli altri.

E questo è il caso, tanto per citare alcuni di detti problemi, della necessità del superamento della crisi economica,della difesa dell’Euro e delle connesse politiche in campo monetario ed economico, dell’eccessivo indebitamento di taluni Stati membri (su tutti Italia e Grecia), della disciplina dell’immigrazione, della disciplina del lavoro e dell’occupazione, delle sfide politiche, ideologiche e militari, che ci vengono da altre Potenze o da altre concentrazioni di Potenze e di quelle terroristiche da parte di incontrollati estremismi.

Il modulo che si è andato consolidando per l’approccio a problemi di così vasta portata è quello della concentrazione in un ristrettissimo numero di Capi di Stato o di Governo - sui quali primeggia la Merkel in virtù della doppia investitura di cui si è detto - di funzioni di indirizzo e funzioni decisionali: una posizione caratterizzata da poteri autoritativi che consentono a questa sorta di Esecutivo di affrontare i problemi secondo propri criteri e di definirne le soluzioni secondo una propria valutazione di congruità, alle quali gli Stati membri dovrebbero sottostare.

Va notato che il modello dei criteri e quello della valutazione di congruità per più versi si ispirano ai modelli in uso in Germania, per cui, a quanto pare, l’Europa non riesce più ad essere di esempio con i suoi moduli ordinamentali ma è invece indotta ad imitare quelli altrui: Pericle ne sarebbe decisamente scontento. 

 

1.2. Ma è tutto ciò compatibile col disegno istituzionale europeo tracciato dai Trattati? 

Diciamo subito che la formula sopra descritta è nata dall’emergenza ma sta pericolosamente protraendosi oltre la stessa. Ora, come è noto, la storia, anche delle democrazie, è piena di esempi di attribuzione di pieni poteri ad una persona sola o ad un direttorio di poche persone, giustificata dall’emergenza o e/o dall’urgenza.  Dal “dictator” di romana memoria siamo oggi passati alle luogotenenze, ai governi provvisori e alle gestioni commissariali.

Nella maggior parte dei casi, tuttavia (se non addirittura in tutti quelli tramandataci nei secoli) due elementi sono sempre presenti: l’ espressa previsione normativa, anche a livello di diritto internazionale, della possibilità di ricorrere all’attribuzione o all’assunzione di poteri eccezionali solo in casi di estrema necessità e urgenza e la durata limitata dell’esercizio dei poteri stessi.

La mancanza della previsione a livello normativo di questi due elementi e l’esercizio dei poteri eccezionali senza limiti di tempo sono sempre stati avversati e guardati con sospetto perché possono costituire il presupposto per un definitivo sovvertimento dei poteri ordinari e dei loro equilibri istituzionali. Ciò soprattutto, ovviamente, nei regimi democratici.

Ora, non sembra che nell’assetto istituzionale e nei principi e norme di base della UE, che affondano le loro radici nella dichiarazione di Ventotene e, successivamente, nei Trattati comunitari e poi in quelli sull’Unione europea, siano rinvenibili previsioni esplicite o implicite nei sensi sopra citati né sembrano rinvenibili, nei quasi settanta anni di storia dell’integrazione europea, esempi così marcati di gestione dei poteri decisionali da parte di un’oligarchia ristretta, espressa da pochi Stati e addirittura egemonizzata da uno di essi.

Una cosa del genere non è accaduta neppure in momenti particolarmente drammatici per l’Europa e per il mondo intero, quali quello della crisi dei Balcani degli anni novanta e quello delle insidie terroristiche brutalmente testate dall’attentato alle due torri di New York nel settembre 2001.

D’altro canto, neanche si può dire che manchino del tutto nei Trattati UE riferimenti a situazioni di necessità o d’urgenza e le relative indicazioni del modus agendi cui attenersi. Per esempio, l’art.26 del Trattato sull’Unione Europea (TUE) nello specificare al primo paragrafo, primo alinea, le basilari competenze del Consiglio Europeo in tema di interessi strategici dell’UE, di politica estera e sicurezza comune e delle relative implicazioni in materia di difesa, prevede, altresì, al secondo alinea dello stesso paragrafo, che “qualora lo esigano sviluppi internazionali, il presidente del Consiglio europeo convoca un riunione straordinaria dello stesso per definire le linee strategiche dell’Unione dinanzi a tali sviluppi”.

Quindi per il problema migratorio, che per vari aspetti sembra rientrare proprio nel campo della politica estera e di sicurezza comune, andava e va riunito, a fronte dell’innegabile emergenza, il Consiglio europeo nella sua interezza, non essendo istituzionalmente previste composizioni ristrette o strutture d’urgenza, presuntivamente idonee a tutelare gli interessi comuni e quelli degli Stati membri direttamente o indirettamente interessati dalle emergenze.

Di conseguenza, tutto quello che è stato sin qui più o meno elaborato e deciso in materia migratoria dalla Cancelliera Merkel e dalla sparuta pattuglia dei suoi timidi partners non è, tecnicamente e quindi giuridicamente, valido, perché adottato da un organo improvvisato e sostanzialmente basato su un’investitura più politica che istituzionale e quindi non legittimato. V’è stato, è vero, il 14 settembre 2015 un vertice formalmente valido del Consiglio Europeo sul punto, ma non sembra che abbia adottato decisioni definitive, chiare e condivise e quindi a valida ratifica (o sanatoria) di quanto deciso dal “gruppo Merkel” .

In altri termini, è probabile che il Trattato di Dublino e quello di Shengen debbano essere rivisti e modificati a fronte dell’emergenza migratoria, ma ciò deve avvenire su iniziativa delle Istituzioni dell’Unione competenti e attraverso le procedure previste dai Trattati e non già attraverso posizioni e soluzioni di forza, di carattere prevalentemente politico.

Lo esigono gli assetti istituzionali soprarichiamati ed in particolare uno di essi, che è certamente mancato al lodo “Merkel” in tema di migrazioni, e cioè il rapporto diretto e continuo col Parlamento Europeo, che è rimasto sinora sostanzialmente escluso dalla cognizione del problema e dal relativo dibattito, con grave vulnus per la democraticità dell’Unione.

Tanto deve dirsi anche in ragione del fatto che, non avendolo adeguatamente coinvolto nella questione, al Parlamento europeo Europeo è stata preclusa la possibilità di avvalersi della procedura di consultazione dei Parlamenti nazionali prevista dal Protocollo n.1 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea: un Protocollo la cui applicazione sarebbe utilissima per la soluzione di tanti problemi ma di cui, invece, troppo spesso ci si dimentica, tra uno strepito e l’altro dei frettolosi decisionisti.

D’altro canto, non risulta che in materia istituzionale europea possa valere il c.d. “principio di effettività” in base al quale, in diritto internazionale ed in diritto costituzionale, si giustificano mutamenti di norme e di strutture istituzionali sulla base del consolidarsi di prassi e di modus operandi modificative dell’assetto preesistente: un giorno, forse, quando si sarà realizzato del tutto il disegno originario dell’entità politico-istituzionale dell’Unione Europea, si potrà ipotizzare l’ammissibilità in certi limiti di detto principio, ma non oggi in cui si è ancora in fase di definizione e piena realizzazione di detto disegno e quindi ogni deviazione dallo stesso può pregiudicare la tenuta degli equilibri di base.

Né rileva, per altro verso, che la Cancelliera Merkel e i suoi pochi partner si siano o meno presentati ai rispettivi Parlamenti nazionali: anche se l’hanno fatto, hanno rispettato le rispettive costituzioni ma sono sempre in difetto con il parametro di democraticità delle determinazioni del’Unione, che non può trovare riscontro se non nel voto, anche solo consultivo, del  Parlamento Europeo.

Tanto più se, come sembra, la soluzione del problema migratorio su cui politicamente si insiste è quella di impegnare l’Unione solo sul piano finanziario, rinunciando a priori alla pianificazione di una gestione comune e in comune dell’accoglienza e dei connessi controlli: una rinuncia che, se confermata dai fatti, costituirebbe un gravissimo errore politico ed un ulteriore vulnus inferto all’identità istituzionale dell’Europa e alla sua originaria vocazione al riconoscimento ed alla tutela dei diritti umani e dei correlati doveri.

 

 1.3. La posizione istituzionale degli Stati “ribelli”.

Ma nei riguardi delle soluzioni del problema migratorio risalenti al “gruppo Merkel” si deve prendere in considerazione anche un altro importante aspetto, costituito dalla “ribellione” di un certo numero di Stati membri alle misure in via di definizione, con contemporanea adozione, da parte loro, di proprie soluzioni d’urgenza, aspramente criticate ma con altrettanta asprezza confermate dagli Stati medesimi.

Si tratta di un aspetto che il problema migratorio ha in comune con quello del salvataggio degli Stati indebitati, in particolare la Grecia: anche in questo campo, infatti, è prevalsa una formula decisionale, fondamentalmente politica e alla “Merkel”, dopo vari e discutibili ricorsi a troike ospitanti, oltre alla BCE con le sue alchimie monetarie, anche entità estranee al tessuto istituzionale europeo, quale il Fondo Monetario Internazionale.

Un giudizio sull’ammissibilità o meno di dette “ribellioni” e sulle loro possibili conseguenze sul piano istituzionale implica la verifica se e in quali limiti le “ribellioni” stesse trovino un possibile riscontro negli assetti ordinamentali dell’Unione.

Un riferimento normativo potrebbe forse rinvenirsi nell’art.28 del TUE, il quale sinteticamente prevede che, qualora lo esigano le situazioni internazionali, spetta al Consiglio dell’Unione adottare le decisioni necessarie, tuttavia, in caso di assoluta necessità connessa con l’evolversi della situazione ed in mancanza di una revisione della decisione del Consiglio alla luce di tale evoluzione, gli Stati membri possono prendere d’urgenza le misure necessarie, tenuto conto degli obiettivi generali di detta decisione.

In astratto, il citato contesto normativo potrebbe legittimare in qualche misura le “ribellioni” cui si è fatto cenno se gli Stati membri “ribelli” riuscissero a dimostrare la sussistenza del presupposto di base, e cioè l’intervenuto evolversi della situazione internazionale rispetto alla situazione esistente a al momento della decisione dell’Istituzione europea.

Il che è da escludersi senz’altro nel caso della Grecia dal momento che, nel suo caso, non si trattava di dare applicazione ad una decisione del Consiglio intervenuta in relazione ad una situazione internazionale, bensì di dare attuazione ad una decisione a suo carico, fortemente voluta sul piano politico dal gruppo Merkel, ed intesa ad ottenere il pagamento di quanto dalla Grecia stessa dovuto all’Unione a titolo di restituzione del’importo ricevuto in prestito.

D’altronde, quello della Grecia non è stato propriamente un atto di ribellione bensì un rifiuto di pagare a seguito di un referendum popolare e successivamente una richiesta di ulteriore proroga in attesa dell’esito delle sue nuove elezioni politiche.

Questi fatti suscitano un altro tipo di riflessioni sul piano della coerenza istituzionale e cioè che nell’assetto dei Trattati non v’è la previsione di un possibile indebitarsi di uno Stato membro nei riguardi dell’Unione in conseguenza di un prestito in denaro da parte di quest’ultima, con conseguente instaurarsi, in capo all’Unione, di un normale diritto di credito. Un diritto, cioè, per il cui soddisfacimento l’Unione, come tutti i creditori, non deve darsi carico di valutare le conseguenze che la relativa pretesa può produrre sull’economia interna dello Stato membro, e quindi a carico dei suoi cittadini e delle sue imprese.

Si tratta di una situazione su cui occorrerebbe riflettere, perché in palese contrasto con la concezione dei rapporti tra Unione e Stati membri recepita nei Trattati e basata fondamentalmente su un principio di sostegno delle economie interne per assicurarne lo sviluppo e la crescita e non certo sulla spietata logica del credito bancario, cui si è invece pervenuti per le storture introdotte in quel sistema di rapporti dalla dottrina Merkel  e dal tecnicismo finanziario della BCE, in nome di una sterile e formalistica austerity.

Diversa è invece la situazione dei “ribelli” in tema di immigrazione. Gli Stati membri che hanno chiuso le frontiere e ostacolano in vario modo i massicci flussi migratori dall’Africa e dalla Siria sono indubbiamente riprovevoli dal punto di vista etico ed anche dei principi di salvaguardia dei diritti umani, cui si ispira l’Unione.

Ma la loro posizione, letta alla luce del richiamato art.28 del TUE, appare, almeno astrattamente, meno antisistematica di quanto sembri.

Intanto, essi non si stanno opponendo ad una decisione del Consiglio, posto che, al momento, esso non ha adottato alcuna decisione precisa e chiara nei contenuti e nelle modalità da rispettare per la sua attuazione. E, a ben vedere, anche le “grida” del gruppo Merkel sono in questo caso molto meno determinate e puntuali, a differenza di quanto è accaduto nel caso degli Stati in difficoltà finanziaria, come si è visto a proposito della Grecia: in ogni, caso, le determinazioni a base politica di detto gruppo non hanno la necessaria legittimazione istituzionale, per i motivi di cui si è detto.

E’ quindi istituzionalmente compatibile che gli Stati predetti, riscontrato il vuoto decisionale e riscontrata la sussistenza delle condizioni di necessità ed emergenza indotte dalla situazione dei flussi migratori, abbiano fatto uso dei poteri di urgenza di cui lo stesso art.26 TUE li accredita, come si è visto, sia pure cadendo in deplorevoli eccessi di autoritarismo ed anche, taluni di essi, rivelando un’allarmante xenofobia di fondo.

E non è del tutto da escludere che a determinare gli atteggiamenti ostili di taluni Stati sia stato anche l’atteggiamento prevaricatore  di quella ristretta oligarchia, unitamente alle motivazioni politiche e di convenienza politico-economica, che stanno a base di esso.

Deve quindi segnalarsi il carattere deviante di tale atteggiamento rispetto al disegno originario dell’Unione e la necessità di un ben diverso approccio degli organi istituzionali dell’Unione ai problemi migratori, come si è accennato in precedenza. Ma soprattutto è necessario che si abbandoni la prassi di cedere lo scettro ad una ristretta oligarchia e di delegarle tutto ciò che conta.

Eugenio Scalfari, nel numero de “La Repubblica” del 20 settembre 2015, si duole della situazione in cui versa l’Europa nei riguardi dell’immigrazione e ne coglie con  esattezza le ragioni istituzionali, giustamente additando come la “vergogna d’Europa” il fatto che non solo gli Stati “ribelli” ma anche tutti gli altri devono rispondere del fatto che, a distanza di settanta anni dal Manifesto di Ventotene, non sono ancora riusciti a dare vita ad una Federazione europea. Ed  ha ragione perché certamente, se ci fosse stata la Federazione, nessuno avrebbe neanche per un attimo immaginato che il problema dell’immigrazione riguardasse solo taluni degli Stati membri e non l’Europa tutta, nel suo insieme territoriale ed economico-sociale.

  

2. I rimedi possibili e perché servirebbe un nuovo De Gasperi.

Ed anche da quest’ultima riflessione viene confermata la necessità di porre rimedio alla situazione di crisi di identità istituzionale, che si avverte nell’Unione Europea.

Alcuni possibili rimedi sono stati già indicati nel paragrafo che precede, ma per prendere le giuste misure nei confronti della crisi occorre riprendere il discorso di fondo, che sta a base dell’Unione stessa, e rendersi conto della necessità di far rivivere lo spirito originario del processo di integrazione. E quindi tornare anche al pensiero e alle concrete realizzazioni dei Padri fondatori dell’Europa e, tra questi, soprattutto ad Alcide De Gasperi.

Ciò per due precise ragioni: la prima è che egli, più degli altri grandi fondatori dell’Europa, ebbe sin dall’inizio la consapevolezza che per raggiungere e far funzionare l’unità europea occorreva costruirla bene e vegliare costantemente sulla realizzazione del progetto istituzionale, correggendo, se necessario, la rotta; la seconda è che egli, unico tra i grandi fondatori dell’Europa, ebbe l’intuizione vincente che l’idea di Europa non è autoreferenziale ma deve convivere e confrontarsi con l’idea dell’Occidente di cui fa parte, anche attraverso solide e concrete alleanze.

Sotto il primo profilo, è significativo quanto egli scrisse, quale Presidente del Consiglio italiano nel suo messaggio telegrafico del 13 febbraio 1952 all’Alta Autorità della Comunità del Carbone e dell’Acciaio (CECA), la prima Istituzione della futura UE, con sede in Lussemburgo: “Sono sinceramente grato per il cortese telegramma inviatomi in occasione apertura mercato comune. Nel felicitarmi vivamente per il cammino già percorso formulo anche a nome del Governo italiano i migliori voti per l’avvenire della Comunità, prima tappa verso l’obbiettivo finale di unità nella quale l’Europa vede la migliore promessa di pace e di prosperità”.

Questo messaggio ci dice e ci fa capire delle cose importanti: è vero che l’integrazione europea fu caratterizzata all’inizio da una forte propensione per le convergenze sul piano economico e mercantile, ma non è vero che non fosse chiaro che ciò non bastava all’idea dell’Europa unita. De Gasperi dice infatti in modo esplicito nel telegramma: sono felice del cammino già percorso e dell’avvio del mercato comune ma non basta perché si tratta solo di una prima tappa verso l’obiettivo dell’unità. Più chiaro di così non avrebbe potuto essere e su questa linea egli perseverò anche quando divenne componente dell’Assemblea della Ceca e quindi dell’Istituzione politica rappresentativa degli interessi dei cittadini nell’architettura comunitaria.

D’altro canto, una delle sue idee fondamentali era quella che “politica vuol dire realizzare” e quindi impegnarsi per la società e i cittadini con concretezza e adeguata, continua conoscenza delle loro esigenze (esattamente il contrario di quel che si riscontra nella maggioranza dei politici di oggi). E’ certo che al riguardo molto si deve alla sua profonda formazione cristiana, che vuole il credente coinvolto nella politica non per finalità confessionali, come accade per altre religioni, ma perché ciò fa parte della sua convinzione di fede. Papa Francesco non fa che confermarlo con le parole e con l’esempio dal giorno stesso della sua elezione.

Quindi De Gasperi, come europeista e come cristiano, non poteva lasciare che il progetto europeo si fermasse alle prime tappe e nemmeno a quelle successive ma doveva essere costantemente orientato all’obiettivo finale, che è poi quello del cui mancato raggiungimento si duole oggi Eugenio Scalfari.

Ma la colpa non è certo di De Gasperi, dal momento che egli si è battuto fino alla fine dei suoi giorni per dare concretezza istituzionale all’integrazione europea. Ed infatti si deve in gran parte anche a lui se dopo quello della CECA fu affrontato con impegno l’ulteriore tappa, costituita dal ben più articolato e complesso progetto di Comunità economica europea, che poi vide la luce nel Trattato di Roma del 1957, tre anni dopo la sua morte, avvenuta nel 1954.  

Quel che soprattutto caratterizzava il suo magistero di europeista cristiano era la costante verifica che tutto trovasse rispondenza e consistenza nelle strutture istituzionali e che il meno possibile fosse frutto di improvvisazione o di inventiva estemporanea. Importante e decisivo era anche, nel suo pensiero,  che la realtà istituzionale fosse costantemente monitorata, per evitare alla stessa i rischi delle inosservanze, delle devianze e delle dimenticanze e per assicurarne il coerente ed intransigente rispetto.

Lo stesso metro che egli usò negli affari interni italiani e che lo portarono al dissidio col Papa che avrebbe voluto un’apertura politica dei moderati nei riguardi della destra estrema pur di allontanare definitivamente dall’Italia l’allora temutissimo spettro del comunismo. De Gasperi, come è noto, si oppose, per rispetto e fedeltà ai principi fondanti della Costituzione repubblicana e democratica, che giammai avrebbero consentito intese di quel genere.

Ma è importante riflettere anche sull’altro profilo, che qualificò il magistero politico-istituzionale di Alcide De Gasperi. Egli, come si è detto, intuì che bisognava fare un discorso di ampio respiro che non si limitasse ad un disegno europeo in cerca di una sua identità esclusivamente nell’ambito della realtà storico-politica dell’Europa ma che occorresse vivificare tale identità attraverso un confronto operativo e collaborativo con la realtà storico-politica dell’intero Occidente, di cui gli Stati Uniti costituivano allora ed ancora oggi costituiscono il principale polo di riferimento.

E’ noto che ciò lo portò a perorare l’adesione dell’Italia e degli altri Stati della Comunità europea al Piano Marshall e al Patto Atlantico, ma non altrettanto evidenti sono i benefici che ne sono derivati al processo di integrazione europea, perché, anzi, la convivenza  tra Europa e Nato ha spesso creao motivi di frizione e così anche l’appartenenza di molti Stati membri all’Alleanza militare con l’America.

Ma l’idea dell’integrazione tra l’Europa unita e la realtà geopolitica del Resto dell’Occidente rimane validissima e probabilmente potrebbe essere il giusto punto di partenza per uscire dal tunnel oscuro in cui oggi sembra essersi bloccato l’Occidente, che ha bisogno quanto l’Europa (se non di più) di ritrovare la propria identità originaria per confrontarsi con l’Oriente e le sue variegate realtà ed insieme affrontare i problemi di maggiore spessore che affliggono il mondo e mettono in pericolo la pacifica convivenza dei popoli, quali la globalizzazione economica e finanziaria, il terrorismo,i flussi migratori, la pessima distribuzione delle risorse, la tutela del clima e dell’ambiente e il relativo recupero, la sfida energetica e quella tecnologica, per pervenire ad una scelta comune e condivisa delle misure da prendere e della loro disciplina a livello internazionale: uno scenario questo in cui un’Europa istituzionalmente forte e fedele alle origini deve avere un ruolo determinante. Come appunto insegnava De Gasperi.

In conclusione, il percorso istituzionale dell’Europa appare oggi in crisi ma si può ancora intervenire sullo stesso per correggerne le deviazioni e per rimetterlo in cammino in vista dell’obiettivo finale dell’unità: quello che occorre è, soprattutto, aver sempre presente la necessità di non tradire mai lo spirito originario delle Istituzioni europee e pervenire ai correttivi di cui abbiano bisogno, non con soluzioni politiche estemporanee e dettate dal contingente e dal “particolare” ma con la continuità della fiducia nelle stesse e nelle loro immense potenzialità: il magistero politico-istituzionale di Alcide De Gasperi è al riguardo di grandissima utilità.

E, sia detto per incidens, ne avrebbe forse bisogno anche l’Italia per riprendersi dal suo attuale caos, istituzionale e non solo.