A CURA DI

AVV. ANTONELLA ROBERTI

LE “NOSTRE PRIGIONI” A CINQUE ANNI DALLA SENTENZA TORREGGIANI

Autore: Prof. Francesca Graziani*

 

1. Sovraffollamento carcerario e regime di esecuzione delle pene: l’incerto epilogo della riforma sull’ordinamento penitenziario

La Corte europea dei diritti umani ha affrontato il problema del sovraffollamento carcerario in Italia a partire dal caso Sulejmanovic del 2009[1]. Con la sentenza Torreggiani dell’8 gennaio 2013 la Corte ha accertato che in Italia la congestione delle carceri è un problema sistemico “risultante da un malfunzionamento cronico proprio del sistema penitenziario”[2].

La concitata novellazione seguita alle condanne di Strasburgo ha posto rimedio alla fase acuta del sovraffollamento carcerario, come riconosciuto dal Consiglio d’Europa che l’8 marzo 2016 ha chiuso il “caso Torreggiani” per constatato adempimento delle prescrizioni della Corte europea dei diritti umani[3]. Dal 2016 però il numero dei detenuti è tornato a crescere a ritmi sostenuti in rapporto alla capienza regolamentare.

L’avvilente bilancio ha palesato il limite degli interventi contingenti e settoriali e ha aperto una riflessione sulla necessità di ripensare l’ordinamento penitenziario. Il vigente assetto normativo poggia principalmente sulla Legge 354/1975 che ha sostituito il Regolamento penitenziario di epoca fascista, improntato al modello retributivo del carcere inteso come luogo di mera contenzione fisica del detenuto, e ha dato attuazione ai principi costituzionali in materia di esecuzione delle pene detentive (art. 27, co. 3, Cost.)[4]. La Legge del 1975 è incentrata sul “trattamento rieducativo individualizzato” in rapporto alla specifica condizione di ciascun detenuto e sul paradigma del “sinallagma carcerario” tra Stato e soggetto recluso, che consente la modulazione della pena in funzione dell’adesione del detenuto al percorso trattamentale[5]. Tuttavia, la Legge 354/1975 è stata pressoché snaturata nel suo originario impianto da una consistente stratificazione di riforme di politica criminale, processuale e penitenziaria che hanno ampliato l’area del penalmente rilevante, innalzato le pene edittali, introdotto ragioni ostative all’acceso di misure alternative al carcere e determinato un massiccio ricorso alla custodia cautelare. La normativa emergenziale ha così determinato, nonostante interventi correttivi/demolitivi della giurisprudenza e rapsodiche controspinte garantiste del legislatore, un obiettivo disallineamento dell’esecuzione penale dai principi sanciti nella Costituzione.

E’ alla luce di questo quadro normativo disorganico e dei parziali risultati conseguiti nel periodo successivo alla sentenza Torreggiani che il 23 giugno 2017 il Parlamento ha adottato la Legge 103/2017 con la quale il Legislatore ha tra l’altro delegato il Governo a modificare la Legge sull’ordinamento penitenziario, ponendo le premesse per il varo della più importante riforma in materia detentiva dal 1975[6].

Se nonché sulla riforma penitenziaria ha pesato la delicata congiuntura politico-istituzionale, caratterizzata dalla conclusione della legislatura e dall’insediamento del nuovo Parlamento, con le inevitabili fibrillazioni del pre e post elezioni che hanno riacceso mai sopite resistenze e allarmi securitari. Il 23 dicembre 2017 il Consiglio dei Ministri ha approvato in esame preliminare solo una parte delle proposte elaborate dalle Commissioni di studio istituite nel luglio 2017[7]. Lo scorso 16 marzo il Consiglio dei Ministri ha adottato in secondo esame un Decreto legislativo che interviene sull’assistenza sanitaria in carcere e sulle misure alternative alla detenzione e lo ha trasmesso al Parlamento, ai fini dell’acquisizione del parere delle Commissioni parlamentari competenti[8].

Da quel momento si è determinata una situazione di stallo. Le forze politiche del nuovo Parlamento si sono dette contrarie a fare esaminare lo schema di decreto alla Commissione speciale e aspettano la costituzione delle Commissioni parlamentari permanenti[9]. Dal canto suo, il Governo uscente ha per il momento scelto di attendere il parere delle Commissioni parlamentari, benché la Legge delega del 2017 consenta all’Esecutivo di emanare in via definitiva il decreto legislativo, “decorsi dieci giorni dalla data della nuova trasmissione”dello schema di decreto al Parlamento[10]. La riforma dell’ordinamento penitenziario è quindi in bilico e il rischio di un suo inabissamento aumenta con il passare del tempo: il 3 agosto prossimo infatti scadrà il termine per l’esercizio della delega.

Da queste premesse muove l’indagine che segue. Il lavoro è diviso in due parti.

La prima parte si concentra sul sovraffollamento carcerario; tema che sarà analizzato soprattutto alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani che, all’esito di un percorso argomentativo non sempre coerente, nella sentenza Muršić c. Croazia del 20 ottobre 2016 ha chiarito i criteri in base ai quali valutare l’insufficienza dello spazio detentivo pro capite come trattamento inumano o degradante contrario all’articolo 3 CEDU.

La seconda parte del lavoro esamina le misure adottate dall’Italia nel biennio 2013-2015 per porre rimedio al problema del sovraffollamento e i punti deboli di questi primi interventi normativi che hanno sollevato spinosi problemi, in parte risolti dalla giurisprudenza di legittimità, e soprattutto hanno avuto un impatto non decisivo sulla cronica congestione degli istituti penitenziari. Ragion per cui dovrebbe perdersi l’occasione di adottare in via definitiva il Decreto legislativo sulla riforma dell’ordinamento penitenziario che, pur con i limiti che lo connotano, segna un sicuro cambio di prospettiva nell’esecuzione penale, orientandola maggiormente alla funzione della pena prefigurata nella Costituzione italiana.

 

2. Assenza di standard internazionali in materia di minimo “spazio vitale” delle celle detentive: la normativa italiana e i numeri del sovraffollamento penitenziario prima e dopo la sentenza Torreggiani

Il sovraffollamento carcerario è generalmente definito sulla base della densità della popolazione carceraria in rapporto alla capienza regolamentare del sistema penitenziario. Secondo l’ultimo Rapporto Space del Consiglio d’Europa, è diminuito il numero di Stati con più di 130 detenuti per 100 posti (erano otto Stati nel 2008; sono due nel 2016)[11].

Tuttavia, quando si analizzano i dati del Consiglio d’Europa è necessario tenere a mente che non esistono a livello internazionale regole utili a definire lo spazio minimo da accordare ai soggetti detenuti. Le Nelson Mandela Rules, adottate in ambito ONU nel 2015, la Raccomandazione n. 22 del 1999 sul sovraffollamento carcerario e le European Prisons Rules del 2006, adottate dal Consiglio d’Europa, fissano principi generali sulle condizioni carcerarie e sul trattamento penitenziario ma non danno indicazioni sulle dimensioni dei locali di detenzione[12]. Maggiori precisi parametri, ancorché non giuridicamente vincolanti, provengono dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT)[13]. Dal 1991 il Comitato ha definito le superfici delle celle, individuando nel 2015 i seguenti auspicabili minimum standard: 6mq per una cella singola e 4mq per ogni detenuto in una cella multipla (sanitari esclusi)[14]. Non si tratta comunque di standard assoluti: da un lato, la deviazione dai suddetti parametri può essere compensata da “fattori allevianti”, tra cui in particolare la possibilità di svolgere attività all’esterno della cella; dall’altro lato, il Comitato incoraggia gli Stati membri del Consiglio d’Europa ad applicare più elevati desirable standard in materia[15].

Dall’assenza di regole uniformi deriva che i confronti statistici sul sovraffollamento nelle carceri sono scientificamente poco attendibili, perché la densità carceraria è calcolata da ciascuno Stato secondo propri criteri. Dal Rapporto Space risulta, ad esempio, che lo spazio pro capite in una cella singola è in media di 11,5 mq in Spagna, 11 mq in Francia e in Turchia, 9 mq in Slovenia, da 6 a 13 mq in Islanda[16].

In Italia, la Legge 354/1975 non indica lo spazio minimo delle celle di reclusione, limitandosi a prescrivere che i locali nei quali si svolge la vita dei detenuti e degli internati siano di “ampiezza sufficiente” e garantiscano appropriate condizioni carcerarie in termini di privacy, igiene, luce, sistema di aerazione e riscaldamento[17]. La capienza regolamentare degli istituti penitenziari è invece calcolata in base al Decreto del Ministero della Sanità del 5 luglio 1975, secondo cui la superficie non può essere inferiore a 9 mq per le celle singole e a 14 mq per le celle doppie, cui vanno aggiunti nelle celle multiple 5 mq in più per ogni detenuto[18].

I criteri suindicati, di gran lunga superiori agli standard minimi fissati dal CPT, finiscono per penalizzare l’Italia dinanzi agli organi di controllo sui diritti umani, portando ad accertare un livello di sovraffollamento più grave di quanto esso realmente sia. In ogni caso, i criteri impiegati dall’Amministrazione per l’edilizia penitenziaria sono in concreto stati disattesi nella pratica che ha anzi registrato un netto divario tra capienza regolamentare del sistema carcerario e numero di soggetti reclusi.

Nel 2004 erano 56.068 i detenuti in Italia (+130%).[19] Alla fine del 2005 la percentuale di sovraffollamento è aumentata al 139%[20]. Nel 2006 il Parlamento ha approvato un provvedimento di indulto che ha prodotto effetti solo nel breve periodo[21]. Il tasso di sovraffollamento è infatti aumentato al 107% nel 2007 e al 135% nel 2008[22]. Alla fine del 2009 le carceri italiane potevano ospitare 44.500 detenuti ma il numero di reclusi raggiungeva le 64.791 unità (+151%)[23].

Dopo la sentenza Sulejmanovic, nel gennaio 2010 il Governo ha dichiarato uno “stato di emergenza” riguardo al sistema penitenziario. Di conseguenza è stato predisposto un “Piano carceri”, volto alla realizzazione di nuovi istituti penitenziari e all’ampliamento/ristrutturazione delle strutture esistenti [24], e sono stati adottati provvedimenti finalizzati a diminuire il numero delle persone ristrette[25]. Le misure non hanno però contenuto i nuovi ingressi: nel dicembre 2010 i detenuti erano 67.961, il numero più alto nella storia della Repubblica (22.839 in più in rapporto alla capienza regolamentare)[26]. Due anni dopo le carceri italiane contavano 65.701 reclusi, a fronte di una capienza di 47.709 posti (+140%).[27] L’Italia era il terzo Stato nel Consiglio di Europa per tasso di sovraffollamento, dopo la Serbia e la Grecia[28].

Come si è detto in premessa, il processo di riforma avviato dal Governo all’indomani della sentenza Torreggiani ha avuto effetti positivi nel breve periodo. Nel mese di dicembre 2013 il sistema penitenziario italiano ospitava 62.536 detenuti e la popolazione carceraria è scesa a 53.623 reclusi nel 2014 e a 52.164 detenuti nel 2015: 16.000 persone in meno rispetto al 2010[29].

Tuttavia, i dati del Ministero della Giustizia evidenziano che dal 2016 il tasso di sovraffollamento carcerario è nuovamente cresciuto, nonostante il numero dei reati sia in costante calo[30]. Nel dicembre 2016 i detenuti presenti nelle carceri italiane erano 54.653 (+109%); sono saliti a 57.608 l’anno successivo[31]. Su centonovantuno istituti penitenziari, solo una trentina rispetta la capienza regolamentare[32]. Al mese di aprile 2018 sono 58.285 i reclusi a fronte di 50.619 posti disponibili[33].

I cittadini non italiani sono 19.844 ed equivalgono al 34% del totale dei reclusi (la media europea è del 21%)[34]. I detenuti per reati di droga costituiscono il 34% della popolazione carceraria, in netto calo rispetto al periodo 2009-2012 quando, per effetto della Legge 49/2006 (Legge Fini Giovanardi), il 40-42% dei reclusi era composto di condannati per droga[35]. Si tratta comunque di una percentuale altissima, specie se comparata alla media degli Stati europei (15%) e che si aggiunge ai tassi relativi ai detenuti tossicodipendenti che rappresentano il 25% della popolazione penitenziaria. A preoccupare è anche l’incidenza dei fenomeni di autolesionismo, dei suicidi tentati e dei suicidi compiuti. Sono stati circa 1.000 i suicidi dal 2000 al mese maggio 2018 (45 nel 2016; 52 nel 2017; 15 nei primi mesi del 2018)[36].

 

3. Spazio detentivo e trattamento inumano o degradante nell’evoluzione della giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani: i casi Sulejmanovic e Torreggiani e la sentenza della Grande Camera nel caso Muršić c. Croazia

E’ alla luce del quadro sopra delineato che deve analizzarsi la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani in tema di sovraffollamento carcerario e di superficie minima delle celle.

Nel silenzio della Convenzione europea dei diritti umani (CEDU), la Corte di Strasburgo ha fatto rientrare il regime detentivo e il trattamento dei reclusi nel sistema di garanzia offerto dalla CEDU attraverso la tecnica interpretativa par ricochet che consente di valutare la conformità alla Convenzione anche di pratiche o di istituti che non rientrano espressamente nel campo di applicazione della CEDU così da colmarne le lacune[37]. La Corte è per questa via giunta ad affermare che “justice can not stop at the prison gate”[38] e che i detenuti godono in linea di principio di tutti i diritti e le libertà garantite dalla CEDU[39].

Norma cardine a tutela dell’integrità dell’individuo, l’articolo 3 CEDU è stato oggetto di un’interpretazione evolutiva della Corte che ha specificato quando un dato comportamento raggiunga la soglia minima di gravità necessaria a integrare una violazione della CEDU[40] ed ha tracciato un discrimine tra le diverse condotte vietate, differenziandole in ragione del diverso coefficiente di sofferenza inflitta al ricorrente[41]. Sotto questo profilo, le condizioni di detenzione e, per quel che qui interessa, il sovraffollamento carcerario possono integrare gli estremi di un trattamento inumano o degradante. La Corte ha infatti affermato che la CEDU pone a carico degli Stati contraenti l’obbligo positivo di assicurare condizioni di detenzione compatibili con il rispetto della dignità umana; cosicché, la “maniera” e il “metodo” dell’esecuzione della misura detentiva non devono sottoporre l’individuo ad angosce o privazioni di un’intensità tale da eccedere il livello di sofferenza che inevitabilmente comporta la privazione della libertà[42].

Lo spazio che deve essere attribuito a ciascun detenuto è stato oggetto di crescente attenzione da parte della Corte di Strasburgo le cui pronunce sono venute a imprimere una svolta fondamentale in materia. Ciò è però avvenuto all’esito di un percorso giurisprudenziale contrassegnato da non poche incertezze.

Possono al proposito tracciarsi tre fasi nella giurisprudenza della Corte.

In un primo momento lo spazio personale accordato ai detenuti non ha costituito un criterio esclusivo per qualificare come inumane o degradanti le condizioni di detenzione. Nella sentenza Kalashnikov c. Russia del 2002, vero e proprio leading case in tema di sovraffollamento carcerario, le ridotte dimensioni della cella rappresentano soltanto uno dei fattori di cui tenere conto ai fini della violazione della Convenzione[43]. Il livello di sofferenza contrario all’articolo 3 CEDU è infatti dalla Corte accertato all’esito di una valutazione complessiva, basata su diversi elementi del caso specifico (quali, ad esempio, la durata della detenzione, l’accesso all’aria aperta, lo stato di salute fisica e mentale del detenuto, le precarie condizioni igienico-sanitarie, l’insufficiente aerazione e ventilazione delle celle, la qualità del riscaldamento e dell’illuminazione, la mancanza d’intimità).

Tuttavia, in una seconda fase è emerso un diverso approccio da parte della Corte: l’estrema esiguità della cella carceraria diventa l’elemento di cui tenere conto al fine di stabilire se le condizioni di detenzione siano contrarie all’articolo 3 CEDU. In particolare, in un alto numero di casi la Corte ha determinato in 3 mq di superficie calpestabile il criterio minimo applicabile in materia di spazio personale da assegnare ai detenuti in una cella collettiva. Più nello specifico, la Corte sembra adottare una duplice soluzione a seconda che la cella offra meno o più di 3 mq di superficie detentiva: nel primo caso lo spazio personale deve essere considerato così manifestamente insufficiente da integrare di per sé gli estremi di una violazione dell’articolo 3 CEDU[44]; quando, invece, la superficie della cella non sia così ridotta e in particolare i detenuti dispongano di uno spazio personale compreso tra 3 e 4 mq, la Corte applica il principio cumulativo per determinare la conformità della situazione carceraria all’articolo 3 CEDU, dovendosi valutare l’effetto unitario di condizioni di detenzione particolarmente afflittive e severe (in termini ad esempio di spazio abitabile, presenza di luce naturale, sistema di riscaldamento, ricambio d’aria nella cella, rispetto delle norme igieniche)[45].

Con riguardo all’Italia, nella sentenza Sulejmanovic del 16 luglio 2009la Corte ha consolidato la giurisprudenza per cui la concessione ai detenuti di una superficie detentiva inferiore ai 3mq (2,70 mq nel caso di specie) determina una violazione automatica dell’articolo 3 CEDU[46]. Dopo quattro anni, nella sentenza pilota Torregiani e altri c. Italia la Corte afferma che quando il sovraffollamento carcerario raggiunga un certo livello, la mancanza di spazio in un istituto penitenziario – inferiore a 3 mq – “può costituire l’elemento centrale da prendere in considerazione nella valutazione della conformità di una data situazione all’articolo 3” CEDU[47]. L’insufficiente spazio abitativo, aggiunge la Corte, è stato poi “ulteriormente aggravato” da altre gravi condizioni detentive (assenza di acqua calda, inadeguatezza nel sistema d’illuminazione e di ventilazione) che hanno causato ai ricorrenti addizionali sofferenze[48].

Tuttavia, in questa seconda fase la giurisprudenza dei giudici di Strasburgo non è andata esente da critiche, non apparendo sempre lineare.

Da un lato, nel caso Sulejmanovic il giudice Zagrebelsky non ha condiviso il parere della maggioranza dei componenti la Corte, rilevando che la prassi del CPT e gli stessi precedenti giurisprudenziali richiamati in sentenza dalla Corte europea dei diritti umani avrebbero dovuto portare a escludere ogni automatismo circa la dimensione delle celle e la violazione della CEDU. Secondo il giudice non sarebbe quindi stato raggiunto il minimo di gravità necessario a integrare la violazione dell’articolo 3 CEDU, non avendo il ricorrente denunciato nessun elemento diverso dall’insufficienza di spazio disponibile[49].

Dall’altro lato, complice la natura casistica della giurisprudenza di Strasburgo, gli interventi della Corte hanno palesato la difficoltà di desumere un orientamento univoco e consolidato in tema di minimo spazio vitale delle celle. Così, sia pure in una minoranza di casi, la Corte ha ritenuto che lo spazio personale minimo assegnato pro capite a ciascun detenuto fosse di 4 mq[50]. Soprattutto, in alcune sentenze la Corte ha affermato che l’esiguità dello spazio detentivo (inferiore a 3 mq o a 4 mq, a seconda della giurisprudenza), determina non già una violazione automatica dell’articolo 3 CEDU ma una forte presunzione di violazione della Convenzione. La differenza non è di poco momento. Nei casi Sulejmanovic e Torreggiani, giusto per rimanere alle pronunce della Corte che interessano l’Italia, i giudici di Strasburgo fissano un’equivalenza che non ammette prova contraria tra un “fatto” (una superficie della cella inferiore a 3 mq) e l’“effetto” che il fatto determina (il trattamento inumano e degradante), a prescindere da ulteriori condizioni di detenzione. Invece, laddove la Corte europea consideri l’assenza di spazio minimo così grave da generare una “strong presumption” di violazione dell’articolo 3 CEDU, gli Stati possono confutare una tale presunzione, dimostrando l’esistenza di fattori in grado di compensare la mancanza di spazio personale[51].

L’assenza di orientamenti uniformi nella giurisprudenza di Strasburgo della Corte ha determinato una certa confusione fino alla sentenza Muršič c. Croazia del 20 ottobre 2016, in cui la Grande Camera – seppure non all’unanimità – ha fatto chiarezza sull’area da garantire a ogni detenuto e sui criteri di accertamento della violazione dell’articolo 3 CEDU[52].

In primo luogo, la Grande Camera conferma il requisito dei 3 mq di superficie calpestabile per detenuto in una cella collettiva come standard minimo rilevante[53].

In secondo luogo, la Corte chiarisce l’approccio da seguire nell’acclarare la violazione dell’articolo 3 CEDU per manifesta esiguità dello spazio personale accordato al detenuto. Secondo la Corte, la valutazione della compatibilità con la CEDU delle condizioni di detenzione non può ridursi a un mero calcolo del numero di metri quadri assegnati ai reclusi[54]. Ne discende che la Corte si esprime in favore dell’orientamento giurisprudenziale per cui la costrizione di un detenuto in uno spazio inferiore a 3 mq in una cella collettiva fa nascere una “forte presunzione” di violazione dell’articolo 3 CEDU[55]. Nelle parole della Corte “the ‘strong presumption’ test should operate as a weighty but not irrebuttable presumption of a violation of Article 3”[56]. La “forte presunzione” di violazione non è quindi inconfutabile, integrando piuttosto una praesumptio iuris tantum. Spetta quindi allo Stato convenuto dimostrare in modo convincente (convincingly) l’esistenza di fattori che, cumulativamente, siano in grado di compensare la mancanza di spazio vitale, quali: la brevità, l’occasionalità e la modesta entità della riduzione dello spazio personale; la sufficiente libertà di movimento e lo svolgimento di attività all’esterno della cella; l’adeguatezza della struttura, in assenza di altri aspetti che aggravino le condizioni generali di detenzione del ricorrente[57].

Quando invece lo spazio personale in una cella collettiva si attesta tra i 3 e i 4 mq, il fattore spaziale rimane un elemento che influisce pesantemente sulla conformità delle condizioni di detenzione alla Convenzione. In tal caso, sussiste una violazione dell’articolo 3 CEDU se l’esiguità della superficie è combinata ad altri fattori d’inadeguatezza del regime penitenziario (impossibilità di fare esercizio all’aria aperta e di avere accesso alla luce naturale e all’aria, insufficiente sistema di riscaldamento, non rispetto di basilari requisiti igienico-sanitari, ecc.)[58].

In conclusione, la Corte europea sembra aver abbandonato il severo automatismo che aveva caratterizzato la precedente giurisprudenza nella verifica dello spazio minimo abitabile nelle celle. La sola sussistenza di una superficie inferiore a 3 mq non è più sufficiente a integrare un trattamento inumano e degradante, costituendo invece un forte indice di violazione dell’articolo 3 CEDU che può però essere vinto dallo Stato convenuto[59].

Nel marzo 2017 la Corte di Cassazione ha riconosciuto l’autorevolezza della decisione proveniente dalla Grande Camera, affermando che la pronuncia della Corte costituisce “espressione di quel‘diritto convenzionale consolidato’, idoneo a generare l’onere di interpretazione adeguatrice in capo al giudice comune italiano”[60].

Resta però che la Grande Camera si è spaccata al momento di valutare la violazione della CEDU in merito al concetto di “breve durata del periodo di detenzione” scontato in meno di 3 mq e al valore da attribuire agli standard fissati dal CPT[61]. In tre opinioni dissenzienti, ben sette su dieci giudici della Corte rilevano, sia pure con diversità di accenti, che i fattori allevianti/compensativi individuati dalla maggioranza della Corte – in particolare il fatto che il detenuto fosse stato ristretto in uno spazio inferiore a 3 mq per periodi non consecutivi di breve durata e potesse svolgere attività all’esterno della cella – fossero insufficienti a colmare la mancanza di spazio personale. Del pari, i giudici hanno espresso disaccordo sulla scelta della maggioranza di non uniformare i propri standard a quelli adottati dal CPT che, come si è detto, ha stabilito uno standard minimo di 6 mq di spazio vitale per i detenuti ristretti in una cella singola e di 4 mq per i detenuti presenti in una cella condivisa. E’ stato infatti osservato che “the Court acts in a complex institutional set-up, not only at the national level, but also at the international level. As a direct result of this, it has limited powers to remedy a situation when it finds that there has been a violation of Article 3 because of inhuman treatment due to prison conditions. Thus it is of particular importance that the position of the Court is well and truly synchronised with that of the other actors in this field. This synchronisation is crucial for the overall effectiveness of its interventions and the clarity of the standards it lays down”[62].

In conclusione, le numerose opinioni dissenzienti allegate alla sentenza, pur non intaccandone il valore di precedente, non consentono di dire che la sentenza Muršič costituisca una tappa definitiva nell’evoluzione della giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani in tema di spazio detentivo minimo da accordare ai soggetti reclusi.

 

3.1. Segue: l’impatto del sovraffollamento carcerario sugli strumenti della cooperazione giudiziaria in materia penale nella giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea

Le condizioni di detenzione e il trattamento penitenziario rientrano nella competenza degli Stati membri dell’Unione europea. Tuttavia, l’Unione ha mostrato un crescente interesse a occuparsi delle condizioni carcerarie. Un tale interesse è giustificato dalla necessità di garantire la cooperazione giudiziaria tra gli Stati membri all’interno dello Spazio di libertà, sicurezza e giustizia[63].

Pietra angolare della cooperazione giudiziaria in materia penale,il principio del “mutuo riconoscimento”delle sentenze e delle decisioni giudiziarie implica che le decisioni di uno Stato membro devono essere riconosciute ed eseguite negli altri Stati membri[64]. Il principio del mutuo riconoscimento presuppone una “fiducia reciproca” degli Stati membri nei rispettivi ordinamenti penali, accordata in ragione dell’omogeneità della tutela dei diritti fondamentali nei diversi ordinamenti giuridici statali[65]. La fiducia reciproca tra gli Stati membri non può però fondarsi su dichiarazioni di principio ma necessita l’adozione di misure puntuali volte, appunto, a stabilire standard qualitativi omogenei in tutta l’Unione[66]. Ecco allora che il deterioramento delle condizioni detentive può incrinare e finanche arrivare a spezzare il sentimento di fiducia reciproca che governa il funzionamento degli strumenti del mutuo riconoscimento[67].

Cosciente della stretta relazione esistente tra regimi penitenziari ed efficacia degli strumenti di mutuo riconoscimento, la Commissione europea ha pubblicato nel giugno 2011 un “Libro verde sull’applicazione della normativa dell’Unione europea sulla giustizia penale nel settore della detenzione”[68]. Dal canto suo, il Parlamento europeo ha sollecitato la Commissione, nel 2011 e più recentemente nel 2017, ad avanzare una proposta legislativa recante standard uniformi sul trattamento dei detenuti europei[69].

Del resto, due recenti casi della prassi giurisprudenziale evidenziano plasticamente le ripercussioni negative che i regimi detentivi esistenti in uno Stato membro possono avere sulla cooperazione giudiziaria in materia penale all’interno dell’Unione europea.

L’11 marzo 2014 la Queen’s Bench Division della High Court inglese ha accolto l’appello di un cittadino somalo che contestava la sua consegna in Italia disposta dalla District Court in esecuzione di un mandato d’arresto europeo[70]. Tra le motivazioni alla base della mancata esecuzione del mandato di arresto europeo vi è stata la forte presunzione che il ricorrente potesse subire, se trasferito, trattamenti inumani o degradanti nelle strutture carcerarie italiane. A tal fine, il giudice inglese ha richiamato la sentenza Torreggiani che accertava l’esistenza di una violazione grave e sistematica dell’articolo 3 CEDU nel nostro sistema penitenziario. L’uso argomentativo della pronuncia dei giudici di Strasburgo ha avuto dunque l’effetto di paralizzare il funzionamento del mandato di arresto europeo[71].

Assai più rilevante è la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea.

La Corte di Lussemburgo riconosce la primaria importanza che il principio della fiducia reciproca riveste nel diritto dell’Unione europea ai fini del mantenimento di uno spazio senza frontiere interne[72]. Ne deriva che, per regola generale, agli Stati risulta “preclusa non soltanto la possibilità di esigere da un altro Stato membro un livello di tutela nazionale dei diritti fondamentali più elevato di quello garantito dal diritto dell’Unione, ma anche, salvo in casi eccezionali, quella di verificare se tale Stato membro abbia effettivamente rispettato, in un caso concreto, i diritti fondamentali garantiti dall’Unione”[73]. Tuttavia, e si viene al punto, il principio della “mutual trust” si sostanzia unicamente in una “presunzione” che i diritti fondamentali garantiti dall’Unione trovino analoga garanzia in tutti gli Stati membri. Una tale presunzione, per quanto forte, non ha carattere assoluto[74].

Con la sentenza del 5 aprile 2016, nei casi riuniti Aranyosi e Căldăraru, la Grande Sezione della Corte di giustizia ha affermato per la prima volta che le autorità giudiziarie di uno Stato membro, prima di eseguire un mandato d’arresto europeo, devono accertare che le condizioni di detenzione nello Stato emittente non integrino un trattamento inumano o degradante[75]. Tale valutazione deve essere condotta sulla base di “elementi oggettivi, affidabili, accurati e debitamente aggiornati”[76].

La Corte precisa che l’esistenza di un rischio generale di trattamenti inumani o degradanti, a causa delle condizioni di detenzione nello Stato membro di emissione, non è sufficiente a costituire un motivo di diniego dell’esecuzione del mandato di arresto europeo. L’autorità giudiziaria è infatti tenuta a verificare se nel caso concreto l’interessato corra il rischio di essere sottoposto a trattamenti inumani o degradanti[77]. A tale scopo, l’autorità giudiziaria dello Stato di esecuzione dovrà chiedere all’autorità giudiziaria dello Stato di emissione di fornire con urgenza le informazioni sulle condizioni cui sarà sottoposta la persona oggetto del mandato arresto europeo[78].

Nel caso in cui questa seconda verifica dovesse attestare il rischio effettivo di trattamenti inumani o degradanti, il mandato di arresto non potrà essere eseguito, anche se, precisa la Corte, “non può essere abbandonato”, dovendo piuttosto l’autorità giudiziaria dell’esecuzione rimandare la decisione sulla consegna della persona fino a quando non riceva informazioni che consentano di escludere l’esistenza del rischio di trattamenti inumani o degradanti[79]. Se l'esistenza del rischio non può essere esclusa in un tempo ragionevole, concludono i giudici di Lussemburgo, l’autorità deve decidere se porre fine alla procedura di consegna[80].

La soluzione adottata dalla Corte di Giustizia rappresenta un netto revirement rispetto alla precedente giurisprudenza[81]. La Corte tenta di bilanciare l’interesse alla protezione dei diritti umani con l’interesse a garantire l’efficacia del mandato di arresto europeo. Se infatti ogni violazione delle norme a tutela dei diritti umani dovesse avere la conseguenza di non dare esecuzione a una richiesta di cooperazione giudiziaria avanzata da uno Stato membro, ciò svuoterebbe gli obblighi del loro contenuto e comprometterebbe la realizzazione di uno Spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Da qui l’affermazione secondo cui l’accertamento del trattamento inumano o degradante non postula il rifiuto dell’esecuzione del mandato di arresto europeo ma, più semplicemente, un suo rinvio. D’altra parte, come è stato osservato in dottrina, questo spostamento nel tempo dell’esecuzione del mandato di arresto si può verosimilmente tradurre in un de facto ground refusal, in conseguenza delle difficoltà degli Stati membri di adeguare entro un termine ragionevole le proprie condizioni carcerarie agli standard europei o comunque di fornire idonee garanzie alle autorità di esecuzione[82].

 

4. L’esecuzione della sentenza Torreggiani: i rimedi preventivi e compensativi in caso di condizioni detentive contrarie all’articolo 3 CEDU alla prova dei fatti

L’esame delle sentenze pilota della Corte di Strasburgo in tema di sovraffollamento penitenziario evidenzia che tra i motivi principali che determinano la Corte a ricorrere alla procedura pilota vi è l’assenza o l’ineffettività di rimedi giurisdizionali attivabili per ottenere la cessazione della violazione o un’adeguata riparazione. In ottemperanza alle prescrizioni dettate dalla Corte di Strasburgo nel caso Torreggiani, l’Italia ha introdotto nella Legge sull’ordinamento penitenziario una combinazione di ricorsi esperibili in caso di condizioni carcerarie contrarie all’articolo 3 CEDU, volti, rispettivamente, a fare cessare la situazione lesiva in corso (rimedi preventivi) e a riconoscere una riparazione anche economica per i danni subiti a causa della violazione patita (rimedi compensativi).

Con riferimento al rimedio di natura preventiva, nella sentenza Torreggiani la Corte europea ha costatato che il diritto di reclamo previsto dalla Legge sull’ordinamento penitenziario (artt. 35 e 69), per quanto accessibile, non consentiva di porre fine a condizioni detentive in violazione dell’articolo 3 CEDU; ciò perché quel procedimento termina con un provvedimento del magistrato di sorveglianza privo della cogenza propria delle decisioni giurisdizionali, integrando una mera sollecitazione all’Autorità penitenziaria per la cessazione delle violazioni riscontrate[83]. Sulla materia era peraltro già intervenuta nel 1999 la Corte Costituzionale italiana[84]. La Consulta dapprima ha affermato che la restrizione della libertà personale non comporta una capitis deminutio di fronte alla discrezionalità dell’autorità preposta all’esecuzione della pena, quindi limpidamente ha concluso che il riconoscimento della titolarità di diritti deve accompagnarsi al riconoscimento del potere di farli valere innanzi ad un giudice in un procedimento di natura giurisdizionale[85]. Rilevato dunque che il reclamo al magistrato di sorveglianza si riduceva in pratica a una semplice doglianza, la Corte ha dichiarato fondata la questione di costituzionalità riguardante il difetto di garanzie giurisdizionali e ha richiamato il legislatore all’esercizio della funzione normativa che a esso compete, al fine di colmare la lacuna e di attuare i principi della Costituzione[86].

Quella lacuna è stata colmata solo a seguito dell’intervento della Corte europea dei diritti umani. Il Decreto legge 146/2013 ha introdotto il nuovo articolo 35-bis nella Legge sull’ordinamento penitenziario[87]. La disposizione consente ai detenuti e agli internati di presentare un reclamo giurisdizionale al magistrato di sorveglianza nei casi di grave e attuale pregiudizio all’esercizio dei propri diritti (incluso il diritto di usufruire di un sufficiente spazio detentivo) derivante da provvedimenti o da condotta dell’Amministrazione penitenziaria. Ove accolga il reclamo, il magistrato di sorveglianza può disporre l’annullamento del provvedimento disciplinare adottato dall’Amministrazione penitenziaria ovvero ordinare all’Amministrazione penitenziaria di porre rimedio alla situazione denunciata entro un determinato termine. Di fronte all’inerzia dell’Amministrazione penitenziaria e a seguito di un nuovo ricorso dell’interessato, il magistrato di sorveglianza può: ordinare l’esecuzione del provvedimento, indicando modalità e tempi di adempimento; dichiarare nulli gli eventuali atti in violazione o elusione del provvedimento rimasto ineseguito; nominare, se occorre, un commissario ad acta.

Con riferimento ai ricorsi compensativi, prima della sentenza Torreggiani il nostro ordinamento penitenziario era sprovvisto di rimedi volti a risarcire i pregiudizi subiti dai detenuti in conseguenza del sovraffollamento carcerario. In assenza di specifiche disposizioni normative, nel 2013 la Corte di Cassazione aveva per altro negato che il magistrato di sorveglianza potesse condannare l’Amministrazione al risarcimento di danni subiti dai detenuti a causa di condizioni detentive contrarie all’articolo 3 CEDU, giacché il sistema normativo riserva la materia risarcitoria e indennitaria alla competenza del giudice civile[88].

A seguito della sentenza Torreggiani, il Governo ha rimediato al vuoto normativo con il Decreto legge 92/2014 che ha introdotto l’articolo 35-ter nella Legge sull’ordinamento penitenziario[89]. L’articolo 35-ter disciplina due tipologie di ricorsi diretti a riparare il pregiudizio derivante a detenuti e internati da condizioni carcerarie contrarie all’articolo 3 CEDU[90].

Il primo dei due rimedi è destinato ai soggetti che stiano subendo un “pregiudizio grave e attuale” ai propri diritti[91]. Su istanza del detenuto, il magistrato di sorveglianza può ordinare una riparazione in forma specifica, consistente in uno sconto della pena ancora da espiare pari a un giorno ogni dieci giorni di pregiudizio subito o, in alternativa – ove il pregiudizio sia stato inferiore a quindici giorni o nel caso in cui il periodo di pena ancora da espiare sia tale da non consentire la detrazione dell’intera misura percentuale – un risarcimento in forma monetaria, pari a otto euro per ogni giorno di pregiudizio subito.

Il secondo rimedio si rivolge ai soggetti che abbiano finito di scontare la pena detentiva o abbiano subito il pregiudizio durante un periodo di custodia cautelare non computabile nella pena da espiare[92]. Entro il termine di sei mesi dalla cessazione dello stato detentivo, i soggetti possono proporre azione al tribunale civile al fine di ottenere un risarcimento in forma monetaria, pari a otto euro per ogni giorno di pregiudizio subito.

I rimedi preventivi e compensativi approntati dal Governo hanno riscosso un primo apprezzamento nel 2014 da parte del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa e della stessa Corte europea dei diritti umani nella sentenza Stella e altri c. Italia[93].

Tuttavia, sul piano concreto, il sistema dei ricorsi ha evidenziato talune criticità che hanno sollevato molteplici dubbi sulle effettive garanzie di tutela assicurate ai diritti delle persone detenute. L’attenzione degli operatori e degli studiosi si è incentrata soprattutto sul rimedio compensativo ex articolo 35-ter della Legge 354/1975[94]. Sull’effettività di un tale rimedio, infatti, ha pesato il tenore letterale dell’articolo 35-ter che ha portato a letture restrittive della norma e a contrasti giurisprudenziali tra i giudici di merito, sui quali è intervenuta in tempi recenti la Corte di Cassazione nella sua funzione nomofilattica.

Molteplici le questioni lasciate aperte dalla norma, relative in particolare alla forma dell’istanza avanzata al magistrato di sorveglianza e agli stessi presupposti per la proposizione del reclamo.

Con riferimento alla prima questione, da un’indagine promossa dal Ministero della Giustizia risulta che, nei primi cinque mesi di vigenza del ricorso risarcitorio, più dell’85% delle istanze presentate al magistrato di sorveglianza sono state dichiarate inammissibili soprattutto per l’assenza di sufficiente motivazione delle istanze risarcitorie[95]. Nel 2016 la Corte di Cassazione ha chiarito i requisiti che deve possedere l’istanza a norma dell’articolo 35-ter[96]. Secondo la Corte la “genericità” della richiesta non è di per sé causa di inammissibilità dell’istanza;né il reclamo richiede una forma specifica, essendo sufficiente l’indicazione del petitum e della causa petendi. Non è quindi necessaria l’indicazione precisa e completa degli elementi che si pongono a fondamento della domanda, essendo l’attività di accertamento demandata al magistrato di sorveglianza che è chiamato a pronunciarsi sul reclamo mediante l’esercizio di ampi poteri istruttori. Ne consegue che l’inammissibilità dell’istanza può essere dichiarata dal magistrato solo se essa appare manifestamente infondata per difetto delle condizioni di legge ovvero se costituisce mera riproposizione di una richiesta già rigettata[97].

Sui presupposti per l’azione risarcitoria ha per lungo tempo inciso negativamente la formulazione dell’articolo 35-ter. Da un canto, la norma ripartisce con chiarezza la competenza del magistrato di sorveglianza e del giudice civile, competenti a decidere i ricorsi avanzati, rispettivamente, dal soggetto che lamenti l’“attualità” di un pregiudizio e da chi non è più detenuto. Dall’altro canto, però, la disposizione è oscura nel riparto di competenza con riferimento alle istanze provenienti da individui che, da detenuti, lamentino una precedente detenzione in violazione dell’articolo 3 CEDU. La questione è tutt’altro che irrilevante, considerato che solo ove fosse riconosciuta la competenza del magistrato di sorveglianza il detenuto potrebbe ottenere il risarcimento in forma specifica.

Nel silenzio dell’articolo 35-ter, la giurisprudenza ha dato risposte diverse alla questione se il magistrato di sorveglianza dovesse o no accertare, ai fini dell’ammissibilità del ricorso, l’“attualità” del pregiudizio sussistente al momento della proposizione del reclamo[98]. Nel 2017 la Corte di  Cassazione, che in passato aveva sostenuto ora l’una ora l’altra tesi, sembra essersi definitivamente orientata sulla tesi c.d. “non attualista”: non è quindi indispensabile che il trattamento inumano lamentato dal soggetto in vinculis sia attuale al momento della proposizione del reclamo al magistrato di sorveglianza, essendo sufficiente che l’interessato sia in regime di espiazione della pena; al contrario, qualora il danneggiato dovesse aver già riacquisito lo status di libero, la richiesta andrà indirizzata al giudice civile[99].

Si è registrata inoltre una certa confusione nella giurisprudenza di merito circa i criteri in base ai quali calcolare la superficie della cella, non essendo chiaro se debba essere escluso dal computo dei metri quadrati vivibili, oltre che l’area destinata ai servizi igienici,lo spazio occupato dagli arredi nella cella (armadi e letto). In alcuni casi, si è operato il calcolo del minimo spazio detentivo al netto dell’ingombro di tutti gli arredi. In altri casi, invece, la magistratura si è orientata su interpretazioni ermeneutiche significativamente definite di “giurisprudenza catastale”[100] e ha incluso nel calcolo dei metri quadri il mobilio e il letto, ritenuti necessari per lo svolgimento di funzioni vitali, quali il riposo, l’alimentazione e il sonno[101].

Di recente, la Corte di Cassazione sembra aver aderito al filone giurisprudenziale che tutela in modo più spiccato i diritti dei detenuti. Nel settembre 2016 la I Sezione penale della Suprema Corte ha affermato che la superficie cui si applicano i parametri minimi individuati dalla Corte EDU deve essere intesa come “spazio utile al fine di garantire il ‘movimento’ del soggetto recluso nello spazio detentivo’, il che esclude, oltre che i servizi igienici, gli spazi occupati dal letto e gli altri mobili, trattandosi di spazio non calpestabile”[102]Nell’ottobre 2017 la I Sezione penale della Suprema Corte ha confermato la pronuncia precedente, ritenendo che la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani debba essere interpretata nel senso di escludere dallo spazio minimo individuale in cella occupata da tutti quegli elementi che sono d’intralcio alla deambulazione, mentre non rilevano gli altri arredi facilmente amovibili[103].

La giurisprudenza dei giudici di legittimità è particolarmente importante, specie ove si tenga conto che la Corte europea dei diritti umani ha trattato la questione solo in via incidentale, dando peraltro risposte diverse a seconda dei casi sottoposti alla sua attenzione[104]. Nel caso Sulejmanovic la Corte non ha tenuto conto dei mobili nel misurare l’area a disposizione dell’individuo[105]. Nella sentenza Torreggianii giudici di Strasburgo non hanno indicato esplicitamente un criterio per calcolare lo spazio minimo personale, limitandosi ad affermare che lo spazio era ulteriormente ridotto dalla presenza di mobilio nelle celle[106]. In altre pronunce la Corte ha sostenuto genericamente di prendere in considerazione la restrizione dello spazio effettivo a causa degli arredi[107]. Nel caso Enache, rimasto isolato, i giudici hanno escluso solo lo spazio dei letti ma non quello degli altri mobili[108]. Nella sentenza Ananyev la Corte non ha incluso nel calcolo della superficie totale della cella i letti a castello, il tavolo e un “cubicolo” in cui era posto un gabinetto[109]. Infine, nella sentenza Muršić c. Croazia la Grande Camera ha da un lato identificato come superficie detentiva individuale quella destinata “al movimento all’interno della cella” e dall’altro lato ha espressamente affermato che “the calculation of the available surface area in the cell should include space occupied by furniture”[110].

Ebbene, muovendo dalla sentenza Muršič c. Croazia, espressione di un diritto convenzionale consolidato, la Corte di Cassazione ritiene poco rilevante il riferimento al mobilio e valorizza invece il passaggio in cui i giudici di Strasburgo intendono i 3 mq come spazio utile al fine di garantire “il movimento” del soggetto all’interno della cella, interpretando così la giurisprudenza del giudice europeo nel senso più favorevole a garantire la tutela dei diritti coinvolti.

Gli interventi giurisprudenziali appena esaminati non hanno disseminato tutti i dubbi che circondano l’effettività del rimedio ex articolo 35-ter.

E’ stato infatti correttamente osservato che il ristoro pecuniario stabilito nella misura fissa e invariabile di otto euro per ogni giorno di pena espiata in condizioni inumane o degradanti, oltre a essere particolarmente esiguo, è calcolato sulla base del numero dei giorni trascorsi in condizioni di detenzione tali da violare l’articolo 3 (“un periodo non inferiore a quindici giorni”). Ciò porta a trascurare altri fattori che appaiono però essenziali per giungere a un’equa determinazione dell’entità della lesione. E’ di tutta evidenza infatti che il quantum del risarcimento non possa prescindere da un apprezzamento in concreto delle condizioni materiali di detenzione (possibilità di accesso all’aria aperta, svolgimento di attività trattamentali, adeguatezza delle strutture) e delle specifiche condizioni fisiche e mentali del detenuto. Riducendo il tutto a una mera questione di giorni trascorsi in celle detentive contrarie all’articolo 3 CEDU, si preclude al giudice la possibilità di calibrare il risarcimento sulla base delle peculiarità del caso di specie. Non è quindi da escludere un intervento sul punto della Corte di europea dei diritti umani in merito all’effettività del rimedio, o della Corte Costituzionale chiamata a esprimersi sulla costituzionalità della disciplina risarcitoria[111].

 

5. Le misure alternative alla detenzione: i provvedimenti adottati dopo la sentenza Torreggiani e le previsioni dello schema di Decreto legislativo sulla riforma dell’ordinamento penitenziario

La principale fonte in tema di misure alternative alla detenzione è costituita dalla Legge n. 354/1075 (Capitolo VI, nella specie art. 47); successivi interventi legislativi hanno esteso l’ambito applicativo delle misure di “prova controllata” o probation al fine di favorire il processo rieducativo del condannato[112].

Già nel lontano 1987 la Corte Costituzionale italiana si era soffermata sull’importanza delle misure alternative alla detenzione, la cui introduzione trae origine “dalle congiunte crisi della pena detentiva e delle misure clemenziali, rivelatisi inadeguate, la prima a svolgere il ruolo di unico e rigido strumento di prevenzione generale e speciale, le seconde a promuovere reali manifestazioni di emenda”[113]. Di qui la necessità di “creare misure che, attraverso l’imposizione di prescrizioni limitative – ma non privative – della libertà personale” siano idonee ad assicurare a un tempo il “controllo sociale” e la “promozione della risocializzazione” del soggetto[114]. Oltre a perseguire uno scopo deflattivo del sistema carcerario, le misure alternative alla detenzione hanno un impatto rilevante sui tassi di recidiva: i detenuti ammessi alle suddette misure, infatti, mostrano un tasso di recidiva pari al 20%, che si riduce all’1% tra coloro che sono stati inseriti in circuiti rieducativi, mentre i tassi di recidiva aumentano fino al 65-70% per i soggetti che scontano la pena in carcere[115].

A seguito della sentenza Torreggiani, il Governo italiano ha adottato alcuni significativi provvedimenti sulle misure alternative[116]. Il riferimento è soprattutto alla Legge 67/2014 e al Decreto legge 146/2013[117].

La Legge 167/2014 ha introdotto l’istituto della messa alla prova(art. 168-bis c.p.), già conosciuto da oltre un ventennio nell’ambito della giustizia minorile[118]. Ispirata alla probation del diritto anglosassone, la messa alla prova è una modalità alternativa di definizione del processo, attivabile sin dalla fase delle indagini preliminari, che consente all’imputato di chiedere la sospensione del procedimento in caso di crimini puniti con la pena pecuniaria o con la pena detentiva fino a quattro anni. Nel caso in cui la sospensione sia accordata, l’indagato/imputato è tenuto a seguire un programma di trattamento che consiste nell’affidamento del soggetto all’Ufficio di esecuzione penale esterna (Uepe) affinché svolga determinate attività (quali lavori di utilità pubblica a favore della collettività)[119]. Il positivo esito della libertà vigilata consente di pervenire a una pronuncia di proscioglimento per estinzione del reato.

All’indomani della sua entrata in vigore, l’istituto ha sollevato diversi problemi, all’origine di posizioni antitetiche assunte dalla giurisprudenza di merito, che sono stati risolti solo a seguito di interventi della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale[120]. In particolare, nel 2017 e nel 2018 la Consulta ha respinto alcune questioni di legittimità costituzionale sollevate con riguardo alla messa alla prova, chiarendo in via pressoché definitiva i contorni dell’istituto[121].

I numeri sulla messa alla prova pubblicati dal Ministero della Giustizia sono in costante in crescita: 2 (giugno 2014); 503 (dicembre 2014); 6.557 (dicembre 2015), 9.090 (dicembre 2016); 10.530 (novembre 2017); 12.649 (aprile 2018)[122]. Tuttavia, questa misura va incontro ad alcuni problemi. Infatti,i tempi dell’istruttoria nei procedimenti di applicazione della messa alla prova si sono dilatati nel tempo, soprattutto per le difficoltà operative in cui versano gli Uffici di esecuzione penale esterna (Uepe). In aggiunta alle mansioni che già spettavano agli Uepe, responsabili della definizione dei programmi risocializzativi e del monitoraggio delle misure di esecuzione penale esterna, gli Uffici sono incaricati di predisporre i programmi di trattamento e le attività riparative nel processo di reinserimento sociale su cui si sviluppa la messa alla prova dell’imputato; cosicché le messe alla prova concretamente avviate sono di gran lunga inferiori al numero di richieste ricevute (9.416 nel 2015; 11.708 nel 2016; 15.343 nel 2017)[123].

Il Decreto Legge 146/2013 ha introdotto nell’ordinamento penitenziario la liberazione anticipata speciale che si traduce in una detrazione della pena pari a settantacinque giorni per ogni singolo semestre di pena espiata, in luogo dei quarantacinque giorni previsti dalla liberazione anticipata ordinaria[124]. L’istituto è stato concepito come un rimedio straordinario e temporaneo (in vigore fino al dicembre 2015), immaginato quale species della liberazione anticipata ordinaria per tutto il periodo della sua vigenza. La ratio della misura è duplice: compensare i detenuti che, dal 1° gennaio 2010, hanno scontato una pena in condizioni contrarie all’articolo 3 CEDU; ridurre in maniera incisiva la popolazione detenuta. Si è così introdotto un beneficio penitenziario di tipo premiale, applicato dal magistrato di sorveglianza come riconoscimento della partecipazione del soggetto al programma rieducativo trattamentale.

La misura ha riguardato 29.747 persone nel 2013, 31.362 nel 2014, 32.113 nel 2015 e 33.827 nel 2016[125]. La natura temporanea della misura spiega quindi, almeno in parte, perché la popolazione carceraria è nuovamente cresciuta dal 2016.

Il Decreto Legge 146/2013 ha poi confermato le misure sulla detenzione domiciliare già introdotte temporaneamente della Legge199/2010. Ne deriva che può farsi ricorso all’istituto dell’esecuzione della pena detentiva presso il domicilio nel caso di pene non superiori ai diciotto mesi di carcere. Gli arresti domiciliari sono eseguiti con il supporto di dispositivi di sorveglianza elettronica, sempre che tali dispositivi siano disponibili. Dal 2010, l’utilizzo di questa misura è cresciuto più del 20% (9.885 al novembre 2016, 10.530 al novembre 2017; 10.978 ad aprile 2018)[126].

Tuttavia, la detenzione domiciliare va incontro a due criticità. In primo luogo, essa ha un basso impatto sulla riabilitazione del soggetto condannato, rivelandosi uno strumento dettato dalla mera necessità di abbattere la popolazione carceraria[127]. In secondo luogo, l’introduzione della c.d. “sorveglianza elettronica” non ha portato i risultati sperati per mancanza dei braccialetti elettronici[128]. L’assenza dei dispositivi di controllo ha creato un’alta discrezionalità nelle decisioni dei giudici di merito: in alcuni casi, le istanze di scarcerazione sono state rigettate dopo aver verificato l’indisponibilità del dispositivo elettronico[129]; in altri casi, si sono concessi gli arresti domiciliari senza monitoraggio a distanza[130]. Nel 2016 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno fatto chiarezza: allontanandosi da precedenti indirizzi, il giudice di legittimità ha stabilito che “il giudice, escluso ogni automatismo nei criteri di scelta delle misure, qualora abbia accertato l’indisponibilità del (…) dispositivo elettronico, deve valutare, ai fini dell’applicazione o della sostituzione della misura coercitiva, la specifica idoneità, adeguatezza e proporzionalità di ciascuna di esse in relazione alle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto”.[131] Pertanto, nell’ipotesi di non disponibilità della strumentazione per il controllo elettronico, spetterà al giudice scegliere la misura meno afflittiva tra quelle astrattamente idonee a tutelare le esigenze cautelari ravvisabili nel caso di specie. Tale decisione dovrà essere assunta sulla base di un bilanciamento avente ad oggetto la tutela della libertà personale e il soddisfacimento delle esigenze cautelari[132].

Con riferimento all’affidamento in prova ai servizi sociali, che permette al condannato di espiare in stato di libertà pene detentive brevi sotto il controllo del servizio sociale, il Decreto Legge 146/2013 ha introdotto un co. 3-bis all’articolo 47 della Legge sull’ordinamento penitenziario. In aggiunta ai casi già previsti, l’affidamento in prova può essere concesso al condannato che deve espiare una pena, anche residua, non superiore a quattro anni di detenzione, quando abbia serbato, nell’anno precedente alla presentazione della richiesta, un comportamento da cui desumere una prognosi favorevole circa la capacità della misura di contribuire alla risocializzazione del reo e di scongiurare la commissione di altri reati[133].

Infine, importanti novità in materia di misure alternative sono previste dallo schema di Decreto legislativo del marzo 2018. In linea generale, il Decreto persegue l’obiettivo di eliminare molti degli automatismi di legge che oggi impediscono o rendono complesso l’accesso alle misure alternative alla detenzione, assegnando al magistrato di sorveglianza il compito di valutare, caso per caso, l’eventuale possibilità di concedere le misure extra murarie, bilanciando gli elementi a favore del detenuto e quelli posti a tutela delle esigenze di difesa sociale. Il Decreto legislativo mette così al centro l’autonomia decisionale della magistratura di sorveglianza che, senza più essere vincolata nelle sue scelte da parametri fissati una volta per tutte dalla legge, sarà chiamata a stabilire in concreto la pericolosità del soggetto e la misura alternativa applicabile, in conformità con il principio del trattamento penitenziario individualizzato e con la finalità rieducativa delle pene. 

La modifica più rilevante – e anche quella oggetto di maggiori polemiche – concerne l’articolo 4-bis della Legge sull’ordinamento penitenziario che esclude dalla possibilità di accesso ai benefici di legge alcune categorie di detenuti individuate sulla base del titolo di reato. Nella sua formulazione originaria, l’articolo 4-bis, introdotto nel periodo immediatamente successivo alle stragi di mafia[134], prevedeva condizioni piuttosto gravi per la fuoriuscita dal circuito detentivo per i responsabili di gravi delitti di associazione mafiosa (i detenuti non escono dal carcere se non collaborano o se non è accertata l’impossibilità di collaborazione). Nel tempo, però, l’articolo è stato ampliato ad altre tipologie di reato mono sogettive.

La riforma intende riproporre la ratio autentica dell’articolo 4-bis, mantenendo l’ostatività assoluta per gli autori dei reati più gravi (mafia, terrorismo, e altri gravi reati che per loro natura comportano un’organizzazione criminale, quali la tratta di persone) e riconducendo, invece, al regime di ostatività ridotta i responsabili di altri reati, per i quali la possibilità di accesso alle misure alternative alla detenzione è rimessa a una valutazione di merito del magistrato di sorveglianza.

Inoltre, il Decreto legislativo del 2018, sul solco del Decreto legislativo 78/2013 e di importanti pronunce della Corte Costituzionale, rimuove ogni residuo di preclusione automatica alle misure extra murarie in caso di recidiva reiterata, eliminando, in particolare, l’articolo 30-quater, che impediva un ritardo nell’accesso ai permessi premio per i recidivi reiterati, e l’articolo 58-quater, c. 7-bis, che imponeva di non poter nuovamente concedere una misura dello stesso tipo al soggetto recidivo reiterato. Nel caso di approvazione della riforma, la concessione di benefici o di misure alternative sarà rimessa al magistrato di sorveglianza dopo attenta valutazione del percorso intrapreso dal detenuto in termini di rieducazione/risocializzazione e di adesione all’opera trattamentale.

Le modifiche introdotte dal Decreto legislativo vanno nella giusta direzione. Esse, senza abbassare la soglia di tutela della collettività, sostituiscono “a valutazioni presuntive, collegate alla tipologia del reato e al tipo d’autore, un meccanismo che, lungi dal prevedere l’automatica concessione delle misure alternative, riassegna alla magistratura di sorveglianza l’indeclinabile compito di valutare la concreta valenza offensiva del fatto per cui v’è stata condanna e la personalità dell’autore”[135].

 

6. L’abuso della custodia cautelare: la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani sull’articolo 5 CEDU

Tra le cause principali del sovraffollamento carcerario in Italia è da annoverare il massiccio ricorso alla custodia cautelare, che può essere disposta dal giudice sia nella fase delle indagini preliminari sia nella fase processuale (dal primo fino al terzo grado di giudizio). L’eccessiva durata dei tempi processuali in Italia ha portato ad assegnare alla custodia cautelare funzioni general-preventive che dovrebbero essere, a rigore, appannaggio esclusivo della sanzione penale. Gli strumenti cautelari si trasformano infatti in misure di sostituzione o anticipazione della pena, ponendosi così in palese contrasto con il principio della presunzione d’innocenza costituzionalmente garantito (art. 27, co. 2, Cost.) e con la funzione stessa dell’istituto che dovrebbe rispondere a specifiche esigenze cautelari (art. 274 c.p.p.).

La Corte europea dei diritti umani ha condannato più volte l’Italia per violazione dell’articolo 5 CEDU, che  sancisce il diritto alla libertà e alla sicurezza, proteggendo l’individuo da privazioni della libertà personale arbitrarie e ingiustificate da parte dello Stato. Attraverso un numero crescente di casi giurisprudenziali, la Corte di Strasburgo ha sviluppato alcuni principi generali in merito all’attuazione dell’articolo 5 CEDU tesi a governare il procedimento per l’applicazione della custodia cautelare e a rafforzare il diritto di difesa[136].

Ai sensi dell’articolo 5, par. 3, CEDU ogni persona arrestata o detenuta deve essere tradotta “al più presto” (promplty) dinanzi ad un giudice[137]. Il procedimento deve essere condotto con particolare diligenza e speditezza, cosicché ritardi ascrivibili, ad esempio, alla complessità del caso, seppure possano risultare compatibili con il principio della durata ragionevole ex articolo 6 CEDU, potrebbero invece condurre a ritenere sproporzionata ed eccedente una misura detentiva ex articolo 5, par. 3, CEDU. Il magistrato competente deve sentire personalmente l’individuo condotto al suo cospetto, ha l’obbligo di valutare le circostanze che militano a favore e contro la detenzione e, ove non ravvisi elementi sufficienti a giustificare il permanere della misura restrittiva, deve disporne l’immediata scarcerazione[138]. La decisione in merito alla detenzione deve essere sufficientemente motivata, non potendosi ricorrere all’utilizzo di formule generali e stereotipate[139].

La Corte europea dei diritti umani ha a più riprese ripetuto che la custodia cautelare costituisce una misura eccezionale che può giustificarsi, alla luce del principio di proporzionalità, solo ove altre misure meno restrittive non siano dallo Stato ritenute sufficienti a salvaguardare l’interesse pubblico e le esigenze di difesa della collettività[140].

Circa la ragionevole durata della detenzione provvisoria, il periodo di tempo cui deve essere ragguagliata la ragionevolezza della misura si estende dal momento dell’inizio della sua esecuzione sino alla pronuncia della sentenza di merito[141]. Sulla base di una valutazione effettuata caso per caso, la Corte verifica gli elementi concreti da cui poter desumere l’esistenza di esigenze che legittimino la perdurante privazione della libertà personale. Se nella fase iniziale (ex articolo 5, par. 1) gli elementi che motivano la custodia cautelare non devono essere dotati del medesimo livello di persuasività richiesto per giustificare una formulazione di imputazione o una sentenza di condanna, con il passare del tempo le ragioni che hanno condotto ad adottare la misura cautelare potrebbero non essere più sufficienti. Il trascorrere del tempo comporta dunque per lo Stato l’obbligo di verificare la presunta attualità delle necessità cautelari che la misura intende soddisfare[142].

Più nello specifico, la Corte ha chiarito che il fumus commissi delicti rappresenta il presupposto indefettibile che deve precedere e accompagnare nel tempo la sussistenza di concrete esigenze cautelari. A tale scopo, le ragioni plausibili di sospetto vanno individuate nell’esistenza di informazioni capaci di produrre in un osservatore obiettivo il convincimento che il soggetto privato della libertà personale possa aver commesso il reato per cui si procede[143]. Tuttavia, se è vero che i gravi indizi di colpevolezza a carico del soggetto servono inizialmente a legittimare l’adozione della misura, dopo un certo periodo non possono essere i soli elementi a supporto della restrizione della libertà, dovendo il giudice rintracciare altri motivi, tra cui il rischio che il sospettato non si presenti al processo; il rischio che il sospettato inquini le prove o possa intimidire i testimoni; il rischio che il sospettato possa commettere nuovi reati; la necessità di tutelare l’ordine pubblico[144].

La custodia cautelare deve essere poi soggetta a un regolare riesame giurisdizionale. Ai sensi dell’articolo 5, par. 4, CEDU il soggetto privato della libertà personale ha diritto di presentare un ricorso giurisdizionale affinché il tribunale “decida in breve termine sulla legittimità della sua detenzione”, sotto il profilo sostanziale e procedurale, e “ne ordini la scarcerazione se la detenzione è illegittima”. Il procedimento così instaurato deve rispettare il nocciolo duro delle garanzie procedurali richieste dall’articolo 6 CEDU (principi del contraddittorio, del diritto alla difesa e della parità delle armi)[145]. Nel caso Fodale c. Italia, la mancata notifica al ricorrente e al suo difensore della data dell’udienza innanzi alla Corte di Cassazione, nonostante il non-irreparabile danno sofferto dal soggetto sottoposto a misura cautelare, ha violato il carattere giurisdizionale del procedimento ed è stata ritenuta contraria alle previsioni convenzionali[146]. In particolare, la Corte di Strasburgo ha condannato più volte l’Italia per l’eccessiva durata del procedimento di riesame[147].

 

6.1. Segue: le misure sulla custodia cautelare introdotte dopo la sentenza Torreggiani e il loro scarso impatto sui numeri della popolazione carceraria

L’eccessivo ricorso allo strumento della custodia cautelare è stato stigmatizzato dalla Corte europea dei diritti umani anche nel caso Torreggiani[148]. Su pressione di quella condanna, il Decreto legge 92/2014 ha modificato l’articolo 275, co. 2-bis, c.p.p. stabilendo che la misura della custodia cautelare in carcere non può applicarsi se il giudice ritiene che, all’esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni[149]. Nell’aprile 2015 poi la Legge 47/2015 ha introdotto importanti modifiche al codice di procedura penale, che appaiono strettamente aderenti alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani relativa all’articolo 5 CEDU[150].

La Legge 47/2015 interviene anzitutto sui presupposti per l’applicazione della custodia cautelare in carcere, di cui all’articolo 274, lett. b) e c) c.p.p., imponendo all’autorità giudiziaria di verificare, ai fini dell’applicazione di una misura cautelare personale, che il pericolo di fuga e/o di reiterazione del reato o di altri gravi delitti non sia solo concreto ma “attuale”[151]. Pertanto, l’adozione di una misura cautelare postula per il giudice la verifica stringente di elementi indicativi della volontà del soggetto di sottrarsi alla giustizia e dell’effettiva pericolosità dell’imputato, non essendo più sufficiente ritenere altamente probabile la commissione di un nuovo reato[152]. In particolare, la concretezza e l’attualità del pericolo non possono essere desunte esclusivamente dalla gravità del titolo di reato per cui si procede, ma dovranno invece essere scrutinate dal giudice caso per caso sulla base di dati e riscontri diretti e pregnanti. Si afferma in tal modo il principio, più volte disatteso nella pratica, secondo cui i soggetti su cui pendono contestazioni per le quali sono previste più pesanti sanzioni penali presenterebbero una maggiore propensione alla fuga o una più spiccata pericolosità sociale[153].

La Legge 47/2015 modifica anche l’articolo 275 c.p.p. Deve osservarsi anzitutto che l’articolo 275 c.p.p. è stato in passato oggetto di innumerevoli interventi legislativi che ne hanno alterato la fisionomia originaria, incentrata sulla natura eccezionale della misura cautelare in carcere. Ai primi razionali interventi, volti a contrastare la criminalità organizzata, ne sono seguiti altri assai più discutibili che hanno previsto per una vasta serie di reati, non più accomunati dalla necessità di combattere le associazioni mafiose, una presunzione ex lege di adeguatezza della custodia in carcere[154]. Le presunzioni assolute stabilite dal legislatore, già oggetto di un pervasivo intervento della Corte Costituzionale, sono state largamente attenuate dalla Legge 47/2015[155].

L’articolo 275, co. 3, c.p.p. mantiene la presunzione assoluta di adeguatezza della misura intramuraria per i delitti di associazione mafiosa (art. 416-bis c.p.), associazione sovversiva (art. 270 c.p.) e associazione con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico (art. 270 bis c.p.)[156]. Per tali reati, le presunzioni in questione sono state ritenute ragionevoli anche dalla Corte Costituzionale e dalla Corte europea dei diritti umani, essendo giustificate da esigenze di sicurezza e di ordine pubblico[157]. Negli altri casi, invece, è escluso ogni automatismo: l’applicazione della custodia cautelare in carcere è rimessa a una valutazione del giudice che, in presenza di gravi indizi di colpevolezza, applicherà la custodia cautelare in carcere “salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari o che, in relazione al caso concreto, le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure”.

Ai sensi del novellato articolo 275, co. 3, c.p.p. “la custodia  cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando le altre misure coercitive o interdittive, anche se applicate cumulativamente, risultino inadeguate”[158]. L’autorità giudiziaria è tenuta a combinare al meglio le diverse misure cautelari, a valutare l’idoneità di misure meno afflittive e ad applicare la restrizione carceraria solo in casi estremi. Nella specie, il legislatore mira a incoraggiare il ricorso agli arresti domiciliari con l’applicazione del braccialetto elettronico, imponendo al giudice che intende disporre la custodia cautelare in carcere di “indicare le specifiche ragioni per cui ritiene inidonea, nel caso concreto” la misura degli arresti domiciliari monitorati attraverso l’uso di sistemi elettronici.

In caso di trasgressioni alle prescrizioni degli arresti domiciliari, la Legge 47/2015 ridimensiona l’automatismo del c.d. “meccanismo di aggravamento”che faceva scattare la custodia in carcere nei casi in cui il soggetto si fosse allontanato dalla propria abitazione o da altro luogo di privata dimora: il nuovo articolo 276, co-1, ter, c.p.p. prevede ora che il giudice possa disporre “la revoca della misura e la sostituzione con la custodia cautelare in carcere“salvo che il fatto sia di lieve entità”[159].

Viene meno la possibilità per il giudice delle indagini preliminari di motivare il provvedimento custodiale per relationem agli atti e alle argomentazioni del pubblico ministero. Il legislatore intende così contrastare, a garanzia del soggetto indagato, la prassi dell’“appiattimento” del giudice rispetto alle richieste del pubblico ministero. In linea con le indicazioni emergenti dalla giurisprudenza di legittimità, il nuovo articolo 292, c. 2, lett. c) e lett. c-bis), c.p.p., impone al giudice di operare un’“autonoma valutazione” delle specifiche esigenze cautelari, tenendo conto degli indizi che giustificano in concreto la misura e delle argomentazioni della difesa[160].

Nonostante il chiaro impianto garantista, la Legge 47/2015 ha avuto un impatto non consistente sui tassi della custodia cautelare. Fino al 2013 la percentuale dei soggetti sottoposti alla custodia in carcere era elevatissima rispetto alla popolazione penitenziaria: 51% nel 2008 (28% in attesa del primo giudizio; 23% in attesa della sentenza definitiva); 60,8% nel 2010 (20.8% in attesa del primo giudizio e 42% in attesa della sentenza definitiva)[161]. Dal 2013 i tassi sono scesi, attestandosi intorno al 34,5% negli ultimi cinque anni (17% in attesa del primo giudizio e 17% in attesa della sentenza definitiva)[162]. Gli effetti deflattivi auspicati dalla Legge 45/2017 non sono quindi stati raggiunti, posto che le percentuali erano già diminuite prima della sua entrata in vigore. Né si registrano variazioni sul tasso di custodia cautelare per i detenuti stranieri pari a circa il 40%[163]. L’Italia resta così il Paese con il maggior numero di soggetti sottoposti a misure cautelari personali in Europa, dove la media si attesta intorno al 25%.

Le ragioni che determinano numeri così elevati non vanno esclusivamente ricercate nei limiti della disciplina codicistica relativa ai presupposti per l’applicazione della custodia cautelare. L’abuso della carcerazione preventiva è infatti anche e soprattutto ascrivibile alla durata del processo penale che continua a essere particolarmente lunga, nonostante le molteplici sentenze di condanna della Corte europea dei diritti umani per violazione dell’articolo 6 CEDU[164]. La dilatazione dei tempi processuali, infatti, incide sul prolungamento delle esigenze cautelari, determinando un innalzamento verso l’alto dei detenuti in attesi di giudizio. Insomma, fintantoché i tempi per giungere a una pena definitiva saranno eccessivamente lunghi, la custodia cautelare continuerà a essere concepita quale unico strumento idoneo a soddisfare in modo tempestivo le esigenze di difesa della collettività.

 

7. Il “regime aperto” e la “vigilanza dinamica”: la riorganizzazione del sistema di detenzione tra mito e realtà

Dal 2011 l’Amministrazione penitenziaria è intervenuta sul circuito di “media sicurezza”, in cui confluisce la maggior parte dei detenuti (circa l’88%), prevedendo un nuovo modello di trattamento incentrato su due istituti: il “regime aperto” e la “sorveglianza dinamica”[165].

Il “regime aperto” si connota per il graduale superamento del criterio di perimetrazione della vita penitenziaria all’interno della cella[166]. In altri termini, il soggetto recluso non è più confinato nella cella di assegnazione ma ha libertà di movimento all’interno della sezione. Al “regime aperto” fa riferimento anche la sentenza Muršič c. Croazia, nel punto in cui la Grande Camera afferma che la sufficiente libertà di movimento garantita al detenuto può costituire uno dei “fattori allevianti” in grado di rimuovere la “forte presunzione” circa la violazione dell’articolo 3 CEDU[167]. Concretamente, il regime implica l’apertura delle stanze di detenzione per le ore giornaliere (dalle 8.30 alle 20). Attualmente, circa il 95% dei detenuti in “media sicurezza” trascorre almeno otto ore al giorno nel cortile o negli spazi comuni dell’istituto penitenziari (erano il 65% nel 2014).

Il nuovo “regime aperto” presuppone anche una nuova idea di sorveglianza da parte degli agenti di polizia penitenziaria: la “sorveglianza dinamica”, mutuata da altri ordinamenti statali e dalle raccomandazioni adottate a livello internazionale ed europeo[168], supera la sorveglianza di tipo meramente custodiale, incentrata sul controllo e sulla vigilanza dei detenuti, mettendo al centro del trattamento la conoscenza del reo. Ciò postula una modifica del ruolo degli operatori e delle figure professionali che operano nel carcere, chiamati a contribuire all’osservazione comportamentale del reo finalizzata al compimento del programma di recupero.

Inoltre, il Decreto Legge 146/2013 ha istituito il Garante nazionale per le persone private della loro libertà, un’Autorità di garanzia modellata sul CPT cui è attribuito il controllo della legalità all’interno dei luoghi di detenzione, affinché l’esecuzione della custodia dei detenuti, degli internati e dei soggetti sottoposti a custodia cautelare in carcere o ad altre forme di limitazione della libertà personale sia attuata in conformità alle norme e ai principi stabiliti dalla Costituzione, dai trattati internazionali sui diritti umani, nonché dalle leggi e dai regolamenti dello Stato. Il Garante ha il potere di visitare, senza necessità di autorizzazione, ogni genere di luogo di detenzione (carceri e centri amministrativi di detenzione per migranti), di accedere ad atti e documenti dell’Amministrazione interessata, di verificare il rispetto degli adempimenti normativi connessi alla tutela dei diritti ed eventualmente di formulare raccomandazioni specifiche per sanare le violazioni riscontrate, infine di monitorare i voli di rimpatrio degli immigrati irregolari eseguiti ai sensi della normativa dell’Unione europea[169].

Notevoli sono dunque i miglioramenti apportati alla fase di esecuzione della pena e all’organizzazione del regime penitenziario. Le criticità non sono però del tutto cessate.

In occasione della sua visita in Italia nel 2016, il CPT, pur sottolineando con favore l’applicazione del “regime aperto”, ha sottolineato che “the generous out-of-cell entitlement enjoyed by medium-security prisoners was not accompanied by an adequate range of purposeful activities”[170]. Perché il carcere risponda alla finalità rieducativa della pena occorre che il “regime aperto” non si riduca ad una sterile libertà di movimento all’interno della sezione di appartenenza ma sia riempito con attività trattamentali. Oggi, però, le attività trattamentali negli istituti penitenziari sono perlopiù limitate all’attività sportiva. Al giugno 2017, i detenuti iscritti a un corso scolastico di qualsiasi grado erano 18.236 su 56.919[171]. Rispetto agli anni Novanta è diminuita la percentuale di detenuti che frequenta un corso di formazione: si trattava dell’8,3% nel 1992, contro il 3,79% del secondo semestre del 2017[172]. Le attività lavorative coinvolgono poco meno del 32% dei detenuti[173]. Di questi, più dell’85% lavora per l’Amministrazione penitenziaria in impieghi poco qualificati e poco spendibili nel mondo esterno, consistenti per lo più in c.d. lavorazioni domestiche (pulizia delle sezioni, distribuzione del vitto, mansioni di segreteria, scrittura di reclami e documenti per altri detenuti)[174].

Statistiche alla mano, un carcere orientato alla funzione rieducativa della pena ha bisogno di risorse adeguate per funzionare. Il bilancio del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria (DAP) è diminuito di quasi 40 milioni di euro rispetto al 2016: gli stanziamenti per il 2017 e per il 2018 sono di circa 2.850 milioni di euro[175]. Tuttavia, l’80% del budget complessivo è consacrato a spese per il personale[176]. Solo l’8,5% del bilancio copre le spese per i detenuti (vitto, attività trattamentali, compensi per i detenuti lavoranti), mentre le risorse stanziate per le misure alternative al carcere sono inferiori al 5% del totale previsto[177]. Il costo giornaliero complessivo dell’Amministrazione penitenziaria diviso per il numero di detenuti si attesta intorno ai 130 euro. A queste stime devono poi aggiungersi i costi derivanti dalle riparazioni per ingiusta detenzione e dagli indennizzi per gli errori giudiziari, per i quali lo Stato ha speso circa 600 milioni di euro dal 1991 al 2013, e i costi derivanti dagli indennizzi per eccessiva durata del processo (ex Legge Pinto), pari a circa 200 milioni di euro l’anno.

 

8. Regime detentivo e finalità rieducativa della pena: non è solo una questione di metri quadrati

Dall’analisi fin qui condotta emergono due considerazioni.

In primo luogo, dopo le sentenze Sulejmanovic e Torreggianiil Governo italiano ha fronteggiato il problema della densità penitenziaria con provvedimenti che hanno consentito un netto calo della popolazione carceraria nel breve periodo (2013-2015), ma che sulla distanza hanno rilevato i propri limiti di efficacia. Al punto che se i ritmi di crescita registrati dal 2016 dovessero restare invariati, nel 2020 si potrebbe tornare ai tassi di sovraffollamento del 2013, anno della sentenza pilota della Corte europea dei diritti umani.

In secondo luogo, le misure volte a fronteggiare il problema della congestione carceraria devono essere lette alla luce della sentenza Muršič. Come si è detto, nel dicembre 2016 la Grande Camera supera l’orientamento assunto in precedenza, cosicché la superficie inferiore a 3 mq accordata a un detenuto in una cella multipla non è più tale da determinare una violazione automatica dell’articolo 3 CEDU ma genera comunque una forte presunzione di violazione della Convenzione. La pronuncia della Corte, si dica per inciso, ha segnato solo in apparenza un arretramento in termini di tutela dei diritti umani: da un canto, la strong presumption delineata dalla Corte può essere vinta solo nel caso in cui lo Stato convenuto provi l’esistenza di stringenti fattori allevianti in grado cumulativamente di compensare l’insufficiente disponibilità di spazio personale; dall’altro canto, la pronuncia della Corte evita un livellamento verso il basso delle garanzie di tutela dei detenuti, ossia che gli Stati si appiattiscano sul rispetto del mero dato formale della metratura fisica, quale soglia minima necessaria a evitare una condanna da parte dei giudici di Strasburgo.

Nella sentenza Muršič la Grande Camera ribadisce infatti che la valutazione della Corte circa la violazione dell’articolo 3 CEDU non può essere ridotta a un mero calcolo numerico di metri quadrati a disposizione di ciascun detenuto. Anche nel caso in cui il detenuto abbia a disposizione più di 3 mq – e specificamente gli sia accordato uno spazio tra i 3 e i 4 mq o uno spazio superiore ai 4 mq – la Corte è chiamata a verificare se le condizioni materiali di detenzione siano conformi all’articolo 3 CEDU. Superato ogni rigido automatismo, la Corte di Strasburgo predilige così un approccio integrato e onnicomprensivo, che chiama in causa la qualità della vita all’interno degli istituti penitenziari, con riferimento sia agli ambienti di detenzione (aerazione, ventilazione, riscaldamento, luce naturale, servizi igienico-sanitari) sia al regime trattamentale effettivamente praticato nelle carceri (accesso all’aria aperta, apertura delle porte della cella, socialità, attività rieducative e lavorative).

L’articolo 3 della CEDU, come interpretato dalla Corte europea dei diritti umani rafforza le previsioni in materia di trattamento dei detenuti già previste nell’articolo 27, co. 3, della Costituzione, ai sensi del quale le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e debbono tendere alla rieducazione del condannato.

La Corte Costituzionale ha più volte affermato l’inscindibilità tra principio umanitario e funzione rieducativa della pena. Secondo la Consulta è nell’azione rieducativa che deve risolversi un trattamento penale ispirato a criteri di umanità[178]: ciò perché è principio di civiltà giuridica che chi si trova in uno stato di detenzione, pur privato della libertà personale, ha diritto a vedersi riconosciuta la “titolarità di situazioni soggettive attive (…) che la pena non intacca”[179], conservando sempre “un residuo” di libertà personale “che è tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale”[180]. Più di recente, nella sentenza n. 279 del 2013 la Consulta ha confermato che “il divieto di adottare misure concretanti un trattamento contrario al senso di umanità non può essere disgiunto, nella ricostruzione della sua ratio e della sua portata applicativa, dal riferimento alla finalità rieducativa” e ha ribadito “il contesto unitario, non dissociabile, nel quale vanno collocati i princìpi delineati dal terzo comma dell’art. 27 Cost., in quanto logicamente in funzione l’uno dell’altro”, poiché “un trattamento penale ispirato a criteri di umanità è necessario presupposto per un’azione rieducativa del condannato”[181].

Il problema della legalità della pena non si riduce quindi alla mera umanità delle pene ma richiede che l’esecuzione della sanzione sia concepita e realizzata in modo da consentire la risocializzazione del soggetto, che si presume essere stata interrotta con la commissione del fatto di reato.

Umanità e rieducazione impongono anzitutto il rispetto di condizioni minime degli ambienti di detenzione e un modello organizzativo e di gestione che offra opportunità di istruzione e lavoro per i detenuti. Umanità e rieducazione impongono soprattutto di spostare il baricentro della risposta sanzionatoria penale incentrata sull’espiazione intramuraria della condanna verso misure di esecuzione penale non detentive, meno onerose per lo Stato, meno afflittive per il detenuto, più efficaci in termini di abbattimento degli indici di recidiva e strutturalmente più idonee al perseguimento di un graduale reinserimento del condannato nella società.

Il principio rieducativo della pena non è confinato unicamente al momento della concreta espiazione della pena. Esso quindi non investe soltanto i giudici di cognizione e i giudici dell’esecuzione e della sorveglianza, chiamati, i primi, a un uso prudente della misura cautelare in carcere e, i secondi, a utilizzare ogni possibile soluzione alternativa o sostitutiva alla detenzione penitenziaria. Come affermato con nitidezza dalla Corte Costizionale, il principio rieducativo caratterizza la pena “sin dalla sua astratta previsione” ed è dunque un “dovere” che si impone anzitutto nei confronti del legislatore[182].

Ecco allora che si può chiudere questo lavoro come lo si è iniziato. Nel momento in cui si scrive, la riforma dell’ordinamento penitenziario è data per spacciata. Il Decreto legislativo adottato dal Consiglio dei Ministri nel marzo 2018 che, è bene sottolinearlo, dà attuazione solo a una parte della Legge delega del 2017, quasi certamente non riceverà il definitivo imprimatur dal Governo uscente. All’orizzonte poi vi è l’insediamento del nuovo Governo che, almeno stando alle dichiarazioni ufficiali, sembra orientarsi verso un inasprimento della repressione penale; un’involuzione carcerocentrica che laddove non si riducesse a mero proclama propagandistico, rischia di vanificare gli sforzi fin qui intrapresi in tema di riduzione della popolazione carceraria e di allineamento del regime penitenziario alla Carta Costituzionale e alla CEDU.

 

* Professore associato di diritto internazionale, Università degli Studi della Campania "Luigi Vanvitelli".

 

[1] Corte EDU, Sulejmanovic c. Italia, ricorso n. 22635/03, 16 luglio 2009.

[2] Corte EDU, Torreggiani e altri c. Italia, ricorsi nn. 43517/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10 e 37818/10, 8 gennaio 2013.

[3] CONSIGLIO D’EUROPA, Resolution CM/ResDH(2016)28 - Execution of the Judgments of the European Court of Human Rights. Two Cases against Italy (Torreggiani and Sulejmanovic), 8 marzo 2016.

[4]Legge 26 luglio 1975, n. 354, Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, e successive modificazioni ed integrazioni, in GU n. 212, 9 agosto 1975. V. anche il Regolamento di esecuzione della Legge 354/1975: D.P.R. 29 aprile 1976, n. 431 e successive modificazioni, in GU n. 162, 22 giugno 1976.

[5] Art. 13 Legge 354/1975. Sul “sinallagma carcerario” v. Costituzionale, sentenza 11 giugno 1993, n. 306, par. 7.1 del ritenuto in fatto.

[6] Legge 23 giugno 2017, n. 103, Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario, in GU n. 154, 4 luglio 2017. V. anche Disegno di legge sulle Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi e per un maggiore contrasto del fenomeno corruttivo, oltre che all’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della pena, Atto Camera n. 2798, 31 dicembre 2014.

La Legge è stata preceduta da un’interessante iniziativa promossa dal Ministro della Giustizia, On. Andrea Orlando. Tra il 19 maggio 2015 e il 18 aprile 2016 sono stati convocati gli “Stati generali dell’esecuzione penale” che hanno coinvolto, attorno a diciotto Tavoli tematici, circa duecento persone (operatori del settore, studiosi e interlocutori della società civile), chiamate ad avanzare proposte per un’efficace realizzazione della legge delega e, soprattutto, a sensibilizzare l’opinione pubblica sui temi del carcere e dell’esecuzione penale, nella consapevolezza che ogni riforma in materia deve essere accompagnata da una mutata percezione sociale del senso e del valore della pena.

V. il Decreto ministeriale dell’8 maggio 2015 che istituisce il Comitato di esperti volto a predisporre le linee di azione degli “Stati generali sull’esecuzione penale” presieduto dal Prof. Glauco Giostra e il Documento finale elaborato dal Comitato di esperti in https://www.giustizia.it/resources/cms/documents/documento_finale_SGEP.pdf. Per commenti in dottrina, si rinvia a: V. ZAGREBELSKY V., Allargare l’area dei diritti non significa banalizzarli, in Questione Giustizia, Vol. 1, 2015, p. 1 ss.; FIORENTIN F., La conclusione degli “Stati generali” per la riforma dell’esecuzione penale in Italia, in Diritto penale contemporaneo, 6 giugno 2016, reperibile su https://www.penalecontemporaneo.it/d/4800-la-conclusione-degli-stati-generali-per-la-riforma-dell-esecuzione-penale-in-italia, p. 1 ss.

[7] Il 19 luglio 2017 il Ministro della giustizia ha istituito tre Commissioni di studio incaricate di elaborare gli schemi dei decreti legislativi. La prima Commissione ha lavorato sullo schema di decreto legislativo in tema di misure di sicurezza e di assistenza sanitaria. La seconda Commissione ha riguardato la riforma dell’ordinamento penitenziario minorile. La terza Commissione, presieduta dal Prof. Glauco Giostra, ha coordinato le tre Commissioni e ha lavorato sulla parte più corposa della riforma, relativa all’ordinamento penitenziario. V. GIOSTRA G., La riforma penitenziaria: il lungo e tormentato cammino verso la Costituzione, in Diritto penale contemporaneo, 9 aprile 2018, reperibile su https://www.penalecontemporaneo.it/d/5966-la-riforma-penitenziaria-il-lungo-e-tormentato-cammino-verso-la-costituzione.

[8] Atto del Governo n. 17, Schema di Decreto legislativo recante riforma dell’ordinamento penitenziario, approvato in secondo esame preliminare dal Consiglio dei Ministri il 16 marzo 2018, reperibile su http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/1066976.pdf.

[9] V. MARIETTI S., Aspettando (invano?) la riforma?, reperibile su http://www.antigone.it/quattordicesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione/aspettando-invano-la-riforma/.

[10] Art. 83 Legge 130/2017.

[11] V. CONSIGLIO D’EUROPA, Annual Penal Statistics (SPACE), Survey 2016,Space I, Prison Population, Pc-cp\space\documents\pc-cp (2017)10, PC-CP(2017)10, Strasburgo, 20 marzo 2018, reperibile su http://wp.unil.ch/space/files/2018/03/SPACE-I-2016-Final-Report-180315.pdf, p. 51 ss.

[12]Le Standard Minimun Rules of the Treatment of Prisoners, adottate nel 1955 dal primo Congresso delle Nazioni Unite sulla prevenzione del crimine e sul trattamento degli autori di reati e approvate dal Consiglio economico e sociale nel 1957, sono state aggiornate dall’Assemblea generale dell’ONU il 17 dicembre 2015 (UNGA Resolution, A/Res/70/175, 8 gennaio 2016). Nel contesto del Consiglio d’Europa v.: Recommendation No. R(99)22 of the Committee of Ministers to Member States concerning Prison Overcrowding and Prison Population Inflation, 30 settembre 1999; Recommendation No. R(2006)2 of the Committee of Ministers to Member States on the European Prison Rules, 11 gennaio 2006 (le Regole penitenziarie europee sono state adottate nel 1973 ed emendate un prima volta nel 1987).

[13] Il Comitato è stato istituito dalla Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, adottata sotto l’egida del Consiglio d’Europa nel 1987, entrata in vigore nel 1989 e successivamente integrata da due Protocolli, entrambi adottati nel 1993 ed entrati in vigore nel 2002 (v. European Treaty Series, No. 126).

[14] CPT/Inf(91)3, 20 febbraio 1991, parr. 95-96; CPT, Living Space per Prisoner in Prison Establishments: CPT Standards, CPT/Inf (2015) 44, Strasburgo, 15 febbraio 2015, reperibile su https://rm.coe.int/16806cc449, par. 9 (v. anche parr. 10-11).

[15]Ibidem, parr. 16-17. Fermi restando i 6 mq previsti per una cella singola, occorrerà aggiungere 4 mq per ogni ulteriore persona assegnata alla cella: ne deriva per una cella doppia una superficie di 10 mq, per una cella tripla 14 mq, e così via.

[16]Inoltre, nella determinazione della capienza degli istituti penitenziari alcuni Stati fanno riferimento alla capienza regolamentare o progettata dei loro istituti, mentre altri Stati utilizzano il criterio della capienza operativa. Sul punto v. CONSIGLIO D’EUROPA, Annual Penal Statistics (SPACE), Survey 2016, cit., p. 54; DIPARTIMENTO AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA, Scheda sulla capienza degli istituti penitenziari – Recepimento nell'ordinamento interno delle indicazioni CEDU e CPT, 2015, reperibile su https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_12_1.wp?facetNode_1=0_2&facetNode_3=0_2_14&facetNode_2=3_1&previsiousPage=mg_1_12&contentId=SPS1189479.

[17]Art. 6 Legge 354/1975.

[18] DIPARTIMENTO AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA, Scheda sulla capienza degli istituti penitenziari, cit.

[19] MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, Detenuti presenti italiani e stranieri – Anni 1991-2017, reperibile suhttps://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14_1.wp?facetNode_1=3_1_6&previsiousPage=mg_1_14&contentId=SST165666.

[20]Ibidem.

[21]Legge 31 luglio 2006, n. 241, Concessione di indulto, in GU n. 176, 31 luglio 2006. L'effetto deflattivo dell’indulto è stato immediato: sono usciti dal carcere 22.476 detenuti nel mese di agosto, altri 3.000 circa entro dicembre e 2.300 circa nei tre anni successivi, di cui 8.745 hanno fatto ritorno in carcere. V. SENATO DELLA REPUBBLICA, Oltre le sbarre. 10 anni di indulti, “svuota carceri” e misure alternative alla detenzione: a che punto siamo col sovraffollamento penitenziario?, luglio 2017, reperibile su http://www.senato.it/application/xmanager/projects/leg18/attachments/documento/files/000/028/760/OLTRE_LE_SBARRE.pdf, p. 14.

[22] MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, Detenuti presenti italiani e stranieri – Anni 1991-2017, cit.

[23]Ibidem.

[24]Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 13 gennaio 2010, Dichiarazione dello stato di emergenza conseguente all’eccessivo affollamento degli istituti penitenziari presenti sul territorio nazionale, reperibile su http://www.ristretti.it. Lo stato di emergenza è stato prorogato fino al dicembre 2013 con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’11 gennaio 2011.

[25]Legge 26 novembre 2010, n. 199, Disposizioni relative all’esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori ad un anno, in GU n. 281, 1° dicembre 2010; Legge 17 febbraio 2012, n. 9, Conversione in legge con modificazioni del Decreto legge 22 dicembre 2011, n. 211, recante interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri, in GU n. 42, 20 febbraio 2012.

[26] MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, Detenuti presenti italiani e stranieri – Anni 1991-2017, cit.

[27]Ibidem.

[28] CONSIGLIO D’EUROPA, Annual Penal Statistics (SPACE), cit.

[29] MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, Detenuti presenti italiani e stranieri – Anni 1991-2017, cit.

[30] Secondo le cifre del Ministero dell’Interno, il 2017 ha registrato un calo del 9,2% dei delitti in Italia (2.457.764 nel 2016 e 2.232.552 nel 2017): in calo gli omicidi (-11,8%), le rapine (-11%) e i furti (-9,1%).

[31] MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, Detenuti presenti italiani e stranieri – Anni 1991-2017, cit. V. anche CPT, Report to the Italian Government on the visit to Italy carried out by the European Committee for the Prevention of Torture and Inhuman or Degrading Treatment or Punishment (CPT) from 8 to 21 April 2016, CPT/Inf (2017) 23, Strasbourg, 8 settembre 2017, reperibile su https://rm.coe.int/pdf/16807412c2, p. 5. Il CPT ha rilevato un aumento di quasi 2.000 detenuti registrato nei primi sei mesi del 2016.

[32]Al 30 giugno 2017 erano dieci le Regioni d’Italia con un tasso di sovraffollamento carcerario superiore al totale nazionale: Puglia (148%); Molise (145%); Lombardia (134%); Friuli Venezia Giulia (132%); Liguria (123%); Emilia Romagna (123%); Basilicata (121%); Veneto (120%); Lazio (119%) e Campania (118%). V. SENATO DELLA REPUBBLICA, Oltre le sbarre, cit., p. 34.

[33] MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, Detenuti presenti – Aggiornamento al 30 aprile 2018, reperibile suhttps://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14_1.page?contentId=SST111146&previsiousPage=mg_1_14.

[34]Gli stranieri provengono per la maggior parte da: Albania (2.552); Marocco (3.699); Nigeria (1.243); Romania (2.563); Tunisia (2.157). V. MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, Detenuti stranieri presenti – Aggiornamento al 30 aprile 2018, reperibile su https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14_1.page;jsessionid=WCkWhSeAZ73mMAdRIKLdkVTV?contentId=SST111152&previsiousPage=mg_1_14; MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, Detenuti presenti stranieri per area geografica – Anni 2007-2017, 31 dicembre 2017, reperibile su https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14_1.page?facetNode_1=0_2&facetNode_2=1_5_36&contentId=SST679902&previsiousPage=mg_1_14.

[35] SENATO DELLA REPUBBLICA, Oltre le sbarre, cit., p. 31 ss. Si comprende dunque l’importanza deflativa del Decreto legge 146/2013 che ha modificato l’art. 73, co. 5, del D.P.R. 309/1990 (T.U. sugli stupefacenti), riducendo la pena ivi prevista per l’ipotesi di lieve entità e modificando la tipizzazione del fatto. Nelle more della conversione, la Corte costituzionale, con sentenza 12 febbraio 2014, n. 32, ha dichiarato l’illegittimità della Legge Fini-Giovanardi, ripristinando sostanzialmente la distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti sia sotto il profilo delle incriminazioni sia sotto quello sanzionatorio. Dando seguito alla sentenza della Consulta, il Decreto legge 36/2014 ha proceduto alla modifica le tabelle allegate al TU stupefacenti.

[36] RISTRETTI, Morire di carcere: dossier 2000-2018, reperibile su http://www.ristretti.it/areestudio/disagio/ricerca/index.htm. V. anche GARANTE NAZIONALE DEI DIRITTI DELLE PERSONE DETENUTE O PRIVATE DELLA LIBERTA’ PERSONALE, Relazione al Parlamento 2017, reperibile su http://www.garantenazionaleprivatiliberta.it/gnpl/resources/cms/documents/bc9d71fe50adf78f32b68253d1891aae.pdf, pp. 68-69. Il 27 luglio 2017 è stato approvato il “Piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti” (in GU n. 189, 14 agosto 2017).

[37]La Corte si è così riconosciuta la competenza di aggiornare e definire i diritti previsti dalla CEDU elevando gli standard europei di protezione dei diritti umani (cfr. Corte EDU, Tyrer c. Regno Unito, ricorso n. 5856/72, 25 aprile 1978, par. 31; Corte EDU [GC], Soering c. Regno Unito, ricorso n. 14038/88, 7 luglio 1989, par. 102).

Fino agli anni Settanta, la limitazione dei diritti delle persone recluse era considerata una conseguenza necessaria (inherent features) dell’applicazione di una misura detentiva; di conseguenza, un tale approccio restrittivo conduceva alla manifesta infondatezza dei ricorsi relativi alla violazione dei diritti dei detenuti. V., ad esempio, Commissione EDU, Kenneth Hugh de Courcy c. Regno Unito, ricorso n. 2749/66, 23 aprile 1967, in cui la Commissione ritiene legittima una compressione del diritto alla vita privata e familiare di un carcerato a causa dello stato di detenzione. Occorre attendere il 1975 perché la Corte europea dei diritti umani statuisca, nella celebre sentenza Golder, che la privazione della libertà personale non comporta di per sé il venire meno dei diritti riconosciuti dalla Convenzione. Pronunciandosi in merito alle limitazioni alla corrispondenza imposte ai detenuti, la Corte EDU ha sottratto al margine di apprezzamento degli Stati il giudizio sulla restrizione dei diritti del detenuto e ha affermato che le misure restrittive dei diritti sanciti dalla CEDU devono soddisfare il requisito di proporzionalità, potendo lo Stato sottoporre i diritti delle persone recluse a restrizioni solo ove queste siano giustificate dalle “normali” e “ragionevoli” esigenze di custodia proprie della detenzione (Corte EDU, Golder c. Regno Unito, ricorso n. 4451/70, 21 febbraio 1975, par. 39).

[38]Corte EDU, Campbell e Fell c. Regno Unito, ricorsi nn. 7819/77 e 7878/77, 28 giugno 1984, par. 69.

[39] Corte EDU [GC], Hirst c. Regno Unito (n. 2), ricorso n. 74025/01, 6 ottobre 2005, par. 69.

[40]L’art. 3 CEDU pone un divieto assoluto e a carattere inderogabile, riconducibile al novero dei c.d. inviolable core rights garantiti dalla Convenzione. A partire dalla sentenza Soering, la Corte ha più volte ribadito che “Article 3 enshrines one of the fundamental values of the democratic societies making up the Council of Europe” (Corte EDU [GC], Soering c. Regno Unito, cit., par. 88; v. anche Corte EDU [GC], Selmouni c. Francia, ricorso n. 25803/94, 28 luglio 1999, par. 95; Corte EDU [GC], Labita c. Italia, ricorso n. 26772/95, 6 aprile 2000, par. 119.

La soglia di gravità non può essere determinata in modo fisso, dipendendo dall’insieme dei dati della causa, tenendo conto in particolare le circostanze oggettive (durata del trattamento, conseguenze fisiche/mentali) e le qualità soggettive del ricorrente (sesso, età, stato di salute). V. Corte EDU [GC], Irlanda c. Regno Unito, ricorso n. 5310/71, 18 gennaio 1978, par. 162. V. anche, ad esempio, Corte EDU, Price c. Regno Unito, ricorso n. 33394/96, 10 luglio 2001, par. 24; Kalashnikov c. Russia, ricorso n. 47095/99, 15 ottobre 2002, par. 95; [GC], Jalloh c. Germania, ricorso n. 54810/00, 11 luglio 2006, par. 67; [GC], Idalov c. Russia, ricorso n. 5826/03, 22 maggio 2012, par. 91.

[41]La giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani ha distinto le fattispecie vietate dall’art. 3 CEDU in base al principio di gradazione. La “tortura” è riferita ai trattamenti inumani che hanno un fine preciso, come quello di ottenere informazioni o confessioni. Le “pene o trattamenti inumani” integrano maltrattamenti deliberati atti a cagionare un’intensa e ingiustificata sofferenza fisica o mentale. Le “pene o trattamenti degradanti” sono invece caratterizzati da umiliazione, svilimento dell’individuo, mancanza di rispetto della sua dignità, tali da suscitare sentimenti di angoscia e di inferiorità che minano la resistenza psico-fisica dell’individuo. V. Corte EDU [GC], Irlanda c. Regno Unito, cit., par. 165.

[42] Corte EDU [GC], Kudla c. Polonia, ricorso n. 30210/96, 26 ottobre 2000, par. 94.

[43] Corte EDU, Kalachnikov c. Russia, ricorso n. 47095/99, 15 luglio 2002, par. 102. V. anche Corte EDU, Dougoz c. Grecia, ricorso n. 40907/98, 6 marzo 2001, par. 48; Kehayov c. Bulgaria, ricorso n. 41035/98, 18 gennaio 2005, par. 64; Trepashkin c. Russia (n. 2), ricorso n. 14248/05, 20 giugno 2011, par. 113.

[44] Corte EDU, Aleksandr Makarov c. Russia, ricorso n. 15217/07, 12 marzo 2009, par. 93. V. anche Andreï Frolov c. Russia, ricorso n. 205/02, 29 marzo 2007, parr. 47-49; Kantyrev c. Russia, ricorso n. 37213/02, 21 giugno 2007, parr. 50-51.

[45] Corte EDU, Moisseiev c. Russia, ricorso n. 62936/00, 9 ottobre 2008, parr. 121-127. V. anche Corte EDU, Babouchkine c. Russia, ricorso n. 67253/01, 18 ottobre 2007, par. 44; Vlassov c. Russia, n. 78146/01,12 giugno 2008, par. 84.

[46] Corte EDU, Sulejmanovic c. Italia, cit. La Corte dichiara di non poter quantificare in modo preciso e definitivo lo spazio personale che deve essere concesso a ogni detenuto ai sensi della CEDU. Esso può infatti dipendere da numerosi fattori, quali la durata della privazione della libertà, le possibilità di accesso all’aria aperta o le condizioni mentali e fisiche del detenuto (par. 40). Tuttavia, la Corte rammenta che in alcune pronunce ha disposto che la mancanza di spazio personale per i detenuti era talmente flagrante da giustificare, da sola, la constatazione di violazione dell’articolo 3 CEDU (par. 41). Costatato quindi che il ricorrente è stato tenuto per circa due mesi e mezzo (dal 30 novembre 2002 all’aprile 2003) in una cella di 2.70 mq di spazio, al lordo della mobilia e al netto dei servizi), la Corte afferma che l’Italia ha violato l’art. 3 CEDU (par. 44). A diverse considerazioni la Corte giunge con riferimento al periodo successivo, poiché dall’aprile 2003 il ricorrente ha disposto ora di 3,24 mq, ora di 4,05 mq, ora di 5,40 mq (par. 45). La Corte osserva anche che il ricorrente non ha denunciato particolari condizioni negative di detenzione e non ha indicato con precisione le ripercussioni negative del regime detentivo sul suo stato di salute, limitandosi ad affermare di essere stato “gravemente leso nella sua integrità fisica e psichica”, senza però fornire alcun elemento utile a dimostrazione (par. 47). La Corte rileva anche che il ricorrente aveva a disposizione quasi nove ore, ripartite tra la possibilità di recarsi nel cortile dell’istituto penitenziario e di socializzare con altri detenuti (par. 48). Alla luce di quanto precede, la Corte conclude che per il periodo in cui il ricorrente disponeva di oltre 3 mq di spazio personale – periodo in cui la sovrappopolazione carceraria non era quindi così eccessiva da sollevare da sola un problema sotto il profilo dell’articolo 3 CEDU –, il trattamento cui è stato sottoposto l’interessato non abbia raggiunto il livello minimo di gravità richiesto per rientrare nella previsione dell’art. 3 CEDU.

[47] Corte EDU, Torreggiani e altri c. Italia, cit., par. 67. V. DELLA MORTE G., La situazione carceraria italiana viola "strutturalmente" gli standard sui diritti umani (a margine della sentenza "Torreggiani c. Italia"), in Diritti umani e diritto internazionale, 2013, 1, p. 147 ss.;FAVUZZA F., Torreggiani and Prison Overcrowding in Italy, in Human Rights Law Review, Vol. 17, 1, 2017, p. 153 ss.

[48] V. in particolare par. 77.

[49] L’opinione dissenziente del giudice Zagrebelsky, alla quale ha aderito la giudice Jočienė, è reperibile su https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_20_1.page?facetNode_1=1_2(2009)&facetNode_2=1_2(200907)&contentId=SDU151219&previsiousPage=mg_1_20.

[50] Corte EDU, Flămînzeanu c. Romania, ricorso n. 56664/08, 12 aprile 2011, parr. 92 e 98; Cotleţ c. Romania (n. 2), ricorso n. 49549/11, 1° ottobre 2013, parr. 34 e 36; Apostu c. Romania, ricorso n. 22765/12, 3 febbraio 2015, par. 79; Tomoiaga c. Romania, ricorso n. 35207/03, 13 settembre 2005, par. 89; Babushkin c. Russia, ricorso n. 67253/01, 18 ottobre 2007, par. 44; Novikov c. Russia, ricorso n. 11303/12, 10 dicembre 2013, par. 33.

[51] V. la sentenza pilota Corte EDU, Ananyev e altri c. Russia, ricorsi nn. 42525/07 e 60800/08, 10 gennaio 2012, par. 148: “It follows that, in deciding whether or not there has been a violation of Article 3 on account of the lack of personal space, the Court has to have regard to the following three elements:(a) each detainee must have an individual sleeping place in the cell;(b) each detainee must dispose of at least three square metres of floor space; and(c) the overall surface of the cell must be such as to allow the detainees to move freely between the furniture items. The absence of any of the above elements creates in itself a strong presumption that the conditions of detention amounted to degrading treatment and were in breach of Article 3”. V. inoltre Corte EDU, Olszewski c. Polonia, ricorso n. 21880/03, 2 aprile 2013, par. 98: “(…) the Court further considered that all situations in which a detainee was deprived of the minimum of 3 sq. m of living space inside his or her cell would be regarded as creating a strong indication that Article 3 of the Convention had been violated”. V. anche la sentenza pilota Neshkov e altri c. Bulgaria, ricorsi nn. 36925/10, 21487/12, 72893/12, 73196/12, 77718/12 e 9717/13, 27 gennaio 2015, par. 232; Varga e altri c. Ungheria, ricorsi nn. 14097/12, 45135/12, 73712/12, 34001/13, 44055/13 e 64586/13, 10 marzo 2015, parr. 74 e 77.

[52] Corte EDU [GC], Muršič c. Croazia, ricorso n. 7334/13, 20 ottobre 2016. La pronuncia della Corte era molto attesa dopo l’esito della sentenza di Camera risalente al 2015, quando sette giudici della Prima Sezione, a maggioranza, non avevano ritenuto la violazione dell’art. 3 CEDU sebbene il ricorrente avesse trascorso un periodo di detenzione in una cella inferiore a 3 mq (Corte EDU, Muršič c. Croazia, ricorso n. 7334/13, 12 marzo 2015).

[53] Corte EDU [GC], Muršič c. Croazia, cit., parr. 110 e 136. La Grande Camera afferma di non dover adottare gli standard delineati dal CPT in materia di spazio vitale da accordare ai detenuti, in ragione del ruolo assegnatole dalla Convenzione. Il CPT esercita funzioni preventive, rivolte al futuro e non giudiziarie, così potendo profilare un grado di protezione più elevato di quello che applica la Corte che è invece chiamata a decidere su singoli casi riguardanti concrete condizioni di detenzione (parr. 112-113). Ciò peraltro nulla toglie all’importanza dei rapporti del CPT, cui la Corte di Strasburgo fa consueto ricorso specie al fine di colmare eventuali lacune nella ricostruzione dei fatti di causa. In molti casi, inoltre, l’invito ad adottare misure ai sensi dell’art. 46 CEDU si accompagna al suggerimento di possibili misure spesso ispirate ai rapporti del CPT. V. ad esempio, Corte EDU, Dybeku c. Albania, ricorso n. 41153/06, 18 dicembre 2007, par. 48; Shtukaturov c. Russia, ricorso n. 44009/05, 27 marzo 2008, par. 95; Sławomir Musiał c. Polonia, ricorso n. 28300/06, 20 gennaio 2009, par. 96; Volkan Özdemir c. Turchia, ricorso n. 29105/03, 20 ottobre 2009, par. 39; Neshkov e altri c. Bulgaria, cit., par. 246; Meier c. Svizzera, ricorso n. 10109/14, 9 febbraio 2016, par. 78.

[54]Ibidem, par. 123.

[55]Ibidem, par. 124.

[56]Ibidem, par. 125.

[57]Ibidem, par. 126 e parr. 135 e 138.

[58]Ibidem, par. 139. Infine, al par. 140 la Corte afferma che quando la persona ristretta ha a disposizione più di 4 mq e “where there fore no issue with regard to the question of personal space arises”, altri aspetti relativi alle condizioni materiali di detenzione rimangono rilevanti per la valutazione dell’eventuale violazione dell’art. 3 CEDU. La Corte richiama la sentenza Story e altri c. Malta (ricorsi nn. 56854/13, 57005/13 e 57043/13, 20 ottobre 2015, parr. 112-113) in cui la Corte ha esaminato altre condizioni di detenzione, tra cui l’accesso all’aria aperta e l’adeguatezza dei sistemi di riscaldamento/aerazione e dei servizi igienici. 

[59] Nel caso di specie, la Corte ha rilevato una violazione dell’art. 3 CEDU per il periodo in cui il ricorrente ha trascorso ventisette giorni consecutivi in uno spazio inferiore a 3 mq. In assenza di elementi necessari a rovesciare la “strong presumption”, la Corte ha concluso che “the conditions of the applicant’s detention subjected him to hardship going beyond the unavoidable level of suffering inherent in detention and thus amounting to degrading treatment prohibited by Article 3 of the Convention” (par. 153). Invece, con riferimento ai periodi non consecutivi (durati al massimo otto giorni) che il ricorrente ha trascorso in uno spazio personale inferiore ai 3 mq, i giudici di Strasburgo hanno ritenuto di breve durata e di minore rilevanza l’assenza di spazio personale. La Corte ha inoltre valorizzato alcuni “fattori allevianti”, portati alla sua attenzione dal Governo (libertà di movimento fuori dalla cella, attività svolte all’aperto, condizioni generali della detenzione) e ha dunque escluso la violazione dell’art. 3 CEDU, in ragione del fatto che il regime detentivo non aveva raggiunto la soglia di gravità richiesta per riscontrare una violazione della CEDU. Anche per quanto riguarda i periodi in cui il ricorrente ha occupato una cella condivisa con altri avendo a disposizione uno spazio personale compreso tra 3 e 4 mq, la Corte ha valorizzato i medesimi “fattori allevianti”, concludendo per l’insussistenza della violazione dell'art. 3 CEDU.

[60] Corte di Cassazione, II Sezione penale, sentenza 10 marzo 2017, n. 11980. V. anche Corte Costituzionale, sentenza 14 gennaio 2015, n. 49, par. 7 del considerato in diritto: “Questa Corte ha già precisato, e qui ribadisce, che il giudice comune è tenuto ad uniformarsi alla ‘giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente’ (sentenze n. 236 del 2011 e n. 311 del 2009), (…) fermo il margine di apprezzamento che compete allo Stato membro (sentenze n. 15 del 2012 e n. 317 del 2009). È, pertanto, solo un ‘diritto consolidato’, generato dalla giurisprudenza europea, che il giudice interno è tenuto a porre a fondamento del proprio processo interpretativo, mentre nessun obbligo esiste in tal senso, a fronte di pronunce che non siano espressive di un orientamento oramai divenuto definitivo. Del resto, tale asserzione non solo si accorda con i principi costituzionali, aprendo la via al confronto costruttivo tra giudici nazionali e Corte EDU sul senso da attribuire ai diritti dell’uomo, ma si rivela confacente rispetto alle modalità organizzative del giudice di Strasburgo. (…) È perciò la stessa CEDU a postulare il carattere progressivo della formazione del diritto giurisprudenziale, incentivando il dialogo fino a quando la forza degli argomenti non abbia condotto definitivamente ad imboccare una strada, anziché un’altra”.

[61] V. le Joint partly dissenting opinion dei giudici Sajó, López Guerra e Wojtyczek; dei giudici Lazarova Trajkovska, De Gaetano e Grozev; e del giudice Pinto de Albuquerque (Corte EDU [GC], Muršič c. Croazia, cit., p. 65 ss).

[62] Joint partly dissenting opinion of Judges Lazarova Trajkovska, De Gaetano e Grozev, ibidem, p. 69, par. 3.

[63] Sull’argomento v. BAKER E., The Emerging Role of the EU as a Penal Actor, in DAEMS T., VAN ZYL SMIT D., SNAECKEN S. (Eds.), European Penology?, Ofxord, 2013, in particolare pp. 77 ss.

[64] V. Art. 82, par. 1, TFUE. La prima formulazione del principio del mutuo riconoscimento è tradizionalmente fatta risalire alla sentenza Cassis de Dijon della Corte di giustizia in merito alla libera circolazione delle merci (Corte giust., Cassis de Dijon, causa C-120/78, 20 febbraio 1979,). L’affermazione del principio in esame nell’ambito della cooperazione penale risale al Consiglio europeo di Cardiff del 15 e 16 giugno 1998 (par. 39) e soprattutto al Consiglio di Tampere del 15 e 16 ottobre 1999 (par. 33).

[65] CONSIGLIO DELL’UE, Programma di misure per l’attuazione del principio del reciproco riconoscimento delle decisioni penali, (2001/C12/02), in GUCE 15 gennaio 2001, C 12.

[66]Per questo motivo il Consiglio dell’Unione ha adottato nel 2009 una “Tabella di marcia” per il rafforzamento delle garanzie procedurali dell’indagato e dell’imputato (in GUUE, 4 dicembre 2009, C 295/1). Negli anni sono state adottate diverse direttive concernenti il diritto all’interpretazione e alla traduzione nei procedimenti penali (2010), il diritto all’informazione nei procedimenti penali (2012), il diritto di avvalersi di un difensore (2013), la presunzione di innocenza e il diritto di presenziare al processo (2016), le garanzie per i minori indagati o imputati (2016).

[67]E’ fondata sul principio del mutuo riconoscimento la decisione quadro che istituisce il mandato di arresto europeo (Decisione quadro del Consiglio del 13 giugno 2002 successivamente modificata da ultimo dalla decisione quadro 2009/299/GAI del Consiglio del 26 febbraio 2009, in GUUE 27 marzo 2009, L 81). Di recente, la Commissione europea ha aggiornato il “Manuale sulle emissione e l’esecuzione del mandato d'arresto europeo” (2017/C 335/01, in GUUE 6 ottobre 2017, C 355/1).

Inoltre, tra il 2008 e il 2009, il Consiglio dell’Unione ha adottato tre decisioni quadro sull’applicazione del principio del reciproco riconoscimento: alle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale (Decisione quadro 2008/909/GAI del Consiglio, del 27 novembre 2008, in GUUE 5 dicembre 2008, L 327); alle sentenze e alle decisioni di sospensione condizionale in vista della sorveglianza delle misure di sospensione condizionale e delle sanzioni sostitutive (Decisione quadro 2008/947/GAI del Consiglio, del 27 novembre 2008, in GUUE 16 dicembre 2008, L 337); alle decisioni sulle misure alternative alla detenzione cautelare (Decisione quadro 2009/829/GAI del Consiglio, del 23 ottobre 2009, in GUUE 11 novembre 2009, L 294).

[68] COMMISSIONE EUROPEA, Libro verde sull’applicazione della normativa dell'UE sulla giustizia penale nel settore della detenzione, COM(2011)327 def., reperibile su https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:52011DC0327&from=IT.

[69] PARLAMENTO EUROPEO, Risoluzione del 15 dicembre 2011 sulle condizioni detentive nell’UE (2011/2897(RSP)); Risoluzione del 5 ottobre 2017 sui sistemi carcerari e le condizioni di detenzione (2015/2062(INI)).

[70] Il testo della pronuncia è reperibile su http://www.marinacastellaneta.it/blog/wp-content/uploads/2014/03/Badre-v-Court-of-Florence-Italy-2014-EWHC-614-Admin-11-March-2014.pdf.

[71] I giudici inglesi hanno peraltro ritenuto generiche e non sufficienti le assicurazioni fornite dal Ministro della Giustizia italiano, secondo cui il soggetto sarebbe stato detenuto in condizioni conformi all’art. 3 della CEDU, in assenza di specifiche indicazioni circa il luogo della futura detenzione e le condizioni effettive che sarebbero state applicate al ricorrente.

[72]Corte giust. [Seduta Plenaria], parere 2/13, 18 dicembre 2014, par. 191. La Corte precisa che il principio della fiducia reciproca si fonda sull’art. 2 TUE (ibidem, par. 168).  

[73]Ibidem, par. 192.

[74] La Corte di giustizia si era già espressa in questi termini in relazione alla gestione delle domande di protezione internazionale nell’ambito del sistema di Dublino, individuando nell’esistenza di “carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti”, tali da violare l’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, il parametro idoneo a sospendere il regime di Dublino. V. Corte giust. [Grande Sezione],N. S. c. Secretary of State for the Home Department e M. E. e altri c. Refugee Applications Commissioner e Minister for Justice, Equality and Law Reform, cause C-411/10, C-493/10, 21 dicembre 2011. V. anche Corte giust. [Grande Sezione], Shamso Abdullahi c. Bundesasylamt, causa C-394/12, 10 dicembre 2013. Sull’argomento v. MENGOZZI P., L’applicazione del principio di mutua fiducia ed il suo bilanciamento con il rispetto dei diritti fondamentali in relazione allo Spazio di libertà, sicurezza e giustizia, in Freedom, Security & Justice: European Legal Studies, 2017, n. 2, p. 1 ss.; PISTOIA E., Lo status del principio di muta fiducia nell’ordinamento dell’Unione secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia. Quale è l’intruso?, ibidem, p. 26 ss.

[75]Corte giust. [Grande Sezione], Pál Aranyosi e Robert Căldăraru, cause C-404/15, C-659/15 PPU, 5 aprile 2016, par. 88.

[76]Ibidem, par. 89. Tali elementi probanti possono essere individuati alla luce delle sentenze della Corte EDU, in decisioni giudiziarie dello Stato membro di emissione o da relazioni, rapporti e altri documenti predisposti in seno al Consiglio d’Europa o alle Nazioni Unite.

[77]Ibidem, par. 92.

[78]Ibidem, parr. 95-96.

[79]Ibidem, par. 98.

[80]Ibidem, par. 104.

[81] V. Corte giust., Leymann e Pustovarv, causa C-388/08 PPU, 10 dicembre 2008, par. 51; Wolzenburg, causa C-123/08, 6 ottobre 2009, par. 57; [Grande Sezione], Radu, causa C-396/11, 29 gennaio 2013; [Grande Sezione], Melloni, causa C-399/11, 26 febbraio 2013.

[82] Cfr. PANELLA L., Mandato di arresto europeo e protezione dei diritti umani: problemi irrisolti e “incoraggianti” sviluppi giurisprudenziali, in Freedom, Security & Justice: European Legal Studies, 2017, n. 3, p. 5 ss., p. 27.

Inoltre, la discrezionalità riconosciuta dalla Corte di Lussemburgo alle autorità giudiziarie dello Stato di esecuzione nella verifica della compatibilità del mandato di arresto europeo con la tutela dei diritti umani, è controbilanciata dalla precisa individuazione da parte della Corte di una procedura da seguire nella valutazione circa l’esecutività o meno del mandato di arresto europeo; procedura che, si noti, è stata pedissequamente seguita dalla nostra Corte di Cassazione, VI Sezione penale, nelle sentenze: 3 giugno 2016, n. 23277/16; 14 giugno 2016, n. 25423; 8 luglio 2016, n. 29721; 18 agosto 2016, n. 35255; 26 settembre 2016, n. 40032).

[83] Corte EDU, Torreggiani e altri c. Italia, cit., par. 55.

[84] Corte Costituzionale, sentenza 8-11 febbraio 1999, n. 26.

[85]Ibidem, par. 3.1 del considerato in diritto.

[86]Ibidem, parr. 3.3. e 4 del considerato in diritto.

[87] Decreto legge 23 dicembre 2013, n. 146, Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria (GU n. 300, 23 dicembre 2013) convertito con modificazioni dalla Legge 21 febbraio 2014, n. 10, in GU n. 43, 21 febbraio 2014.

[88] Corte di Cassazione, I Sezione penale, sentenza 15 gennaio 2013, n. 4772.

[89] Decreto legge 26 giugno 2014, n. 92, Disposizioni urgenti in materia di rimedi risarcitori in favore dei detenuti e degli internati che hanno subito un trattamento in violazione dell'articolo 3 CEDU, nonché di modifiche al codice di procedura penale e alle disposizioni di attuazione, all’ordinamento del Corpo di polizia penitenziaria e all’ordinamento penitenziario, anche minorile (GU n. 147, 27 giugno 2014), convertito con modificazioni dalla Legge 11 agosto 2014, n. 117, in GU n. 192, 20 agosto 2014.

[90] Cfr. DELLA BELLA A., Il risarcimento per i detenuti vittime di sovraffollamento: prima lettura del rimedio introdotto dal D.L. 92/2014, in Diritto penale contemporaneo, reperibile su https://www.penalecontemporaneo.it/d/3343-il-risarcimento-per-i-detenuti-vittime-di-sovraffollamento-prima-lettura-del-nuovo-rimedio-introdot.

[91] Art. 35-ter, co. 1-2.

[92] Art. 35-ter, co. 3.

[93] COMITATO DEI MINISTRI, Riunione del 3-5 giugno 2014, DH-DD 1201; Corte EDU, Stella c. Italia, ricorso n. 49169/09, 16 settembre 2014. La Corte, pur formulando un giudizio positivo sull’accessibilità e sull’effettività dei ricorsi, si è riservata la possibilità di un eventuale riesame alla luce dell’applicazione concreta dei nuovi strumenti da parte dei giudici nazionali. La Corte europea ha nondimeno confermato il giudizio positivo espresso nel caso Stella c. Italia nella sentenza Varga e altri c. Ungheria, cit., par. 105.

[94]DELLA BELLA A., Il risarcimento per i detenuti vittime di sovraffollamento, cit. V. anche la Relazione dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, I nuovi rimedi risarcitori previsti dall’art. 35-ter ord. penit. nelle prime applicazioni della giurisprudenza di merito, maggio 2015, reperibile su http://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/RelIII115.pdf; FIORENTIN F., L’effettività della tutela risarcitoria delle condizioni detentive contrarie all’art. 3 Cedu: riflessioni a margine di un’indagine del Ministero della giustizia sulla prima applicazione dell’art. 35-ter, l. n. 354/1975, in Processo penale e giustizia, n. 3, 2015, p. 151 ss.

[95] V. MINISTERO DELLA GIUSTIZIA (Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria del personale e dei servizi – Direzione generale di statistica), Indagine sulle istanze presentate ai sensi dell’art. 35 ter, O.P., novembre 2014. Cfr. FIORENTIN F., L’effettività della tutela risarcitoria delle condizioni detentive contrarie all’art. 3 Cedu, cit., p. 153.

[96] Corte di Cassazione, I Sezione penale, n. 876/2016, udienza del 16 luglio 2015.

[97] Si aggiunga che nel 2016 e nel 2017 la Corte di Cassazione e la Corte Costituzionale si sono espresse a favore dell’esperibilità del ricorso da parte del detenuto in stato di semilibertà, degli internati e degli ergastolani. V., rispettivamente: Corte di Cassazione, II Sezione penale, sentenza 16 febbraio 2017, n. 7421/2017; Corte Costituzionale, sentenza del 13 aprile 2017, n. 83; Corte Costituzionale, sentenza 21 luglio 2016, n. 204.

[98] Sulla tesi attualista v. Corte di Cassazione, I Sezione, sentenza 11 giugno 2015, n. 43722. Sulla tesi non attualista v. Corte di Cassazione, I Sezione penale, sentenza 16 luglio 2015, n. 876.

[99] Corte di Cassazione, sentenza 10 gennaio 2017, n. 3117.

[100] L’espressione è coniata dall’Associazione L’altro diritto (http://www.altrodiritto.unifi.it/sportell/mursic/intervention-it.pdf, p. 7).

[101] V. ALBANO A.-PICOZZI F., Contrasti giurisprudenziali in materia di (misurazione dello) spazio detentivo minimo: lo stato dell’arte, in Archivio Penale, n. 1, 2015, reperibile su http://www.archiviopenale.it/File/DownloadArticolo?codice=7c641d9c-9ebc-465b-a6ef-0711ac4a27ac&idarticolo=9360; MARIOTTI M., Ancora sul sovraffollamento carcerario: nel calcolo della superficie della cella è compreso lo spazio del letto? La Cassazione interpreta la giurisprudenza di Strasburgo in modo particolarmente favorevole ai detenuti, in Diritto penale contemporaneo, 29 marzo 2017, reperibile su www.penalecontemporaneo.it.

[102]Corte di Cassazione, I Sezione penale, sentenza 9 settembre-13 dicembre 2016, n. 52819.

[103] Corte di Cassazione, I Sezione penale, sentenza 30 ottobre 2017, n. 49793.

[104] Per approfondimenti v. MARIOTTI M., Ancora sul sovraffollamento carcerario, cit., p. 131.

[105]Corte EDU, Sulejmanovic c. Italia, cit., parr. 43-45.

[106] Corte EDU, Torreggiani e altri c. Italia, cit., par. 75.

[107] V., ad esempio, Corte EDU, Branduse c. Romania, ricorso n. 6586/03, 7 aprile 2009, par. 49; Mariana Marinescu c. Romania, ricorso n. 36110/03,  2 febbraio 2010, par. 66; Varga e altri c. Ungheria, cit., par. 87.

[108]Corte EDU, Enache c. Romania, ricorso n. 16986/12, 1° aprile 2014, par. 54.

[109] Corte EDU, Ananyev e altri c. Russia, cit., par. 147.

[110] Corte EDU (GC), Muršić c. Croazia, cit., par. 114.

[111]FIORENTIN F., L’effettività della tutela risarcitoria delle condizioni detentive contrarie all’art. 3 Cedu, cit., p. 156.

[112]  Il riferimento è specialmente alla Legge 10 ottobre 1986, n. 663 (Legge Gozzini) e alla Legge 27 maggio 1998, n. 165 (Legge Simeone).

[113] Corte Costituzionale, sentenza 18 ottobre 1987, n. 46, par. 2 del considerato in diritto.

[114]Ibidem.

[115] V. ad esempio, GIOSTRA G., La riforma penitenziaria, cit. 

[116] Nella sentenza Torreggiani la Corte europea dei diritti umani ha richiamato le Raccomandazioni del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa che invitano le autorità nazionali a riorientare la propria politica penale verso un minore ricorso alla detenzione, puntando in particolare sull’incremento, nella misura più ampia possibile, delle misure alternative alla detenzione (Raccomandazione n. R(1999)22 del 30 settembre 1999; Raccomandazione n. R(2006)2 dell’11 gennaio 2006. V. Corte EDU, Torreggiani e altri c. Italia, cit., parr. 31-32).

[117] Legge 28 aprile 2014, n. 67, Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili, in GU n. 100, 2 maggio 2014; Decreto legge 23 dicembre 2013, n. 146, cit.

[118] Art. 3 Legge 67/2014. Sull’argomento v. VIGANÒ F., Sulla proposta legislativa in tema di sospensione del procedimento con messa alla prova, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, 2013, p. 1300 ss.; MARANDOLA A., La messa alla prova dell’imputato adulto: ombre e luci di un nuovo rito speciale per una diversa politica criminale, in Diritto penale e processo, 2014, p. 676 ss.; BOVE V., Messa alla prova, a poco più di un anno: quali, ancora, le criticità?, in Diritto Penale Contemporaneo, 2015, reperibile su

https://www.penalecontemporaneo.it/upload/1450694302BOVE_2015c.pdf.

[119] Il trattamento può prevedere che siano imposti determinati obblighi all’imputato (ad esempio, il divieto di frequentare determinati luoghi). V. anche Corte di Cassazione, III Sezione penale, sentenza 7 febbraio 2018, n. 5784, con cui il giudice di legittimità ha affermato che il giudice può integrare o modificare il programma di trattamento solo con il consenso dell’imputato.

[120]Circa l’influenza di eventuali circostanze aggravanti rispetto al calcolo del massimo edittale di pena ai fini dell’applicabilità della messa alla prova, nel 2016 la Corte di Cassazione ha stabilito che, ai fini dell’individuazione dei reati per i quali è ammessa la sospensione del procedimento con messa alla prova, occorre avere riguardo esclusivamente alla pena edittale massima prevista per la fattispecie base, così prescindendo dalla contestazione delle circostanze aggravanti (Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza 31 marzo 2016, n. 33216).

Inoltre, considerata l’assenza di norme di diritto intertemporale nella Legge 67/2014, nel 2015 la Corte Costituzionale ha chiarito che la messa alla prova, in quanto istituto radicalmente alternativo al giudizio di merito, non può trovare applicazione nei procedimenti che, alla data di entrata in vigore della legge, abbiano già superato la fase processuale entro la quale il soggetto può formulare, a pena di decadenza, la richiesta di sospensione del procedimento (Corte costituzionale, sentenza 26 novembre 2015, n. 240).

Infine, nel 2016 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 460, co. 1, lett. e), c.p.p., per contrasto con l’art. 24 Cost., nella parte in cui non prevede che il decreto penale di condanna contenga l’avviso della facoltà dell'imputato di chiedere mediante opposizione la sospensione del procedimento con messa alla prova (Corte costituzionale, sentenza 21 luglio 2016, n. 201).

[121] V. Corte Costituzionale, ordinanza 11 gennaio-10 marzo 2017, n. 54. La Corte Costituzionale ha dichiarato la manifesta infondatezza delle censure sollevate, tra l’altro, in relazione all’art. 168-bis c.p. che, secondo il giudice remittente, violerebbe: l’art. 3 Cost., poiché concedendo la possibilità di sospensione del giudizio con messa alla prova in relazione ad un cospicuo numero di reati tra loro eterogenei, avrebbe l’effetto di applicare un identico trattamento a casi diversi; e gli artt. 24 e 27 Cost., perché l’omessa indicazione nell’art. 168-bis c.p. della durata massima del lavoro di pubblica utilita e dei criteri da seguire per la sua predisposizione impedirebbe all’imputato di conoscere le sanzioni in cui può incorrere e sarebbe contraria al finalismo rieducativo che la sanzione penale deve indefettibilmente possedere. La Corte ha affermato che l’istituto alla messa alla prova non è automatico ma è “frutto di una valutazione discrezionale dell’autorità giudiziaria”, operata in ragione della gravità e della natura del reato, oltre che della capacità a delinquere dell’imputato e della sua personalità. L’istituto comporta una diversificazione dei contenuti, prescrittivi e di sostegno, del programma di trattamento, spettando al giudice il “giudizio sull’idoneità del programma, quindi sui contenuti dello stesso, comprensivi sia della parte ‘afflittiva’ sia di quella ‘rieducativa’, in una valutazione complessiva circa la rispondenza del trattamento alle esigenze del caso concreto”. Di conseguenza, l’eterogeneità dei reati a cui è applicabile la messa alla prova non rende l’istituto incompatibile con l’art. 3 Cost., né l’art. 168-bis c.p. viola gli artt. 24 e 27 Cost. perché la durata della messa alla prova e la prestazione del lavoro di pubblica utilità sono stabilite sulla base del programma di trattamento elaborato d’intesa con l’Ufficio di esecuzione penale esterna e sottoposto al giudizio di idoneità del giudice.

V. anche Corte Costituzionale, sentenza 21 febbraio 2018, n. 91 con la quale la Consulta ha rigettato numerose questioni di legittimità che mettevano in discussione la compatibilità della messa alla prova con i principi sanciti dalla Costituzione nella materia penale (tra cui gli artt. 25, co. 2, e 27, co. 2, Cost.).

[122]SENATO DELLA REPUBBLICA, Oltre le sbarre, cit., p. 26; GARANTE NAZIONALE DEI DIRITTI DELLE PERSONE DETENUTE O PRIVATE DELLA LIBERTA’ PERSONALE, Relazione al Parlamento 2017, cit., p. 46; MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, Misure alternative, lavoro di pubblica utilità, misure di sicurezza, sanzioni sostitutive e messa alla prova – Dati al 30 aprile 2018, reperibile su https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14_1.page?facetNode_1=0_2&contentId=SST111195&previsiousPage=mg_1_14.

[123]Ibidem. Su questi presupposti, il Decreto ministeriale del 23 febbraio 2017 ha riorganizzato il sistema territoriale degli Uffici di esecuzione penale esterna (Uepe), aumentando il numero degli uffici locali da 21 a 43, per garantire un intervento quanto più possibile ritagliato sulle peculiarità di ciascun territorio.

[124] Art. 4 Decreto legge 146/2013.

[125]SENATO DELLA REPUBBLICA, Oltre le sbarre, cit., p. 25

[126] MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, Misure alternative, lavoro di pubblica utilità, misure di sicurezza, sanzioni sostitutive e messa alla prova – Dati al 30 novembre 2016, reperibile su https://giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14_1.page;jsessionid=Oedv+y+GWCDNFE91b+y+a63y?facetNode_1=0_2&contentId=SST1294401&previsiousPage=mg_1_14; Misure alternative, lavoro di pubblica utilità, misure di sicurezza, sanzioni sostitutive e messa alla prova – Dati al 30 novembre 2017, reperibile su https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14_1.page?facetNode_1=0_2&facetNode_2=0_2_9&contentId=SST68162&previsiousPage=mg_1_14; Misure alternative, lavoro di pubblica utilità, misure di sicurezza, sanzioni sostitutive e messa alla prova – Dati al 30 aprile 2018, cit.

[127] GARANTE NAZIONALE DEI DIRITTI DELLE PERSONE DETENUTE O PRIVATE DELLA LIBERTA’ PERSONALE, Relazione al Parlamento 2017, cit., p. 83: “Tale misura può forse può essere definita la misura ‘meno trattamentale’ prevista dall’ordinamento penitenziario. Una detenzione domiciliare ‘vuota’, mero contenitore di divieti e obblighi e intesa come strumento dettato da esigenze deflattive produce dinamiche sociali che risultano essere solo espressione  di un bisogno di punizione. Togliere spazio, inoltre, a una progettualità con finalità di reintegro della persona detenuta domiciliarmente significa anche dimenticare la prevenzione della recidiva poiché la misura si traduce in mero controllo, in una situazione di sostanziale solitudine e d’impoverimento dei rapporti sociali: la persona è priva di un qualsiasi contenuto di sostegno”.

[128] Nel 2003 il Ministero dell’Interno ha stipulato un accordo con Telecom S.p.A. che, a fronte di un contratto decennale per poco meno di 10 milioni di euro l’anno, prevedeva la fornitura di 2.000 braccialetti elettronici da distribuire sull’intero territorio nazionale. Fino al 2012 i braccialetti attivi erano cinquantacinque. V. MARANI S., Braccialetti elettronici non disponibili: carcere o domiciliari?, 15 giugno 2016, reperibile su http://www.altalex.com/documents/news/2016/05/24/braccialetti-elettronici-non-disponibili-carcere-o-domiciliari; MARIANI G., Braccialetto elettronico, i guai di un sistema che in Italia non va, 7 luglio 2017, reperibile su http://www.ristretti.org/Le-Notizie-di-Ristretti/braccialetto-elettronico-i-guai-di-un-sistema-che-in-italia-non-va.

[129] V., ad esempio, Corte di Cassazione, II Sezione Penale, sentenza 10 novembre 2015, n. 46328.

[130] V., ad esempio, Corte di Cassazione, I Sezione Penale, sentenza 10 settembre 2015, n. 39529.

[131] Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza 28 aprile 2016, n. 20769. Sul punto, v. GUERINI I., Più braccialetti (ma non necessariamente) meno carcere: le Sezioni Unite e la portata applicativa degli arresti domiciliari con la procedura di controllo del braccialetto elettronico, in Diritto Penale Contemporaneo, 24 giugno 2016, reperibile su https://www.penalecontemporaneo.it/d/4769-piu-braccialetti-ma-non-necessariamente-meno-carcere-le-sezioni-unite-e-la-portata-applicativa-degl.

[132] Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza 28 aprile 2016, cit., par. 5.3 del considerato in diritto. Va in ogni caso dato che atto che nell’agosto 2017, è stata affidata a Fastweb la fornitura, l’installazione e l’attivazione mensile di 1.000 braccialetti elettronici, fino a un surplus del 20% in più, con connessi servizi di assistenza e manutenzione per un arco temporale di ventisette mesi. Il che dovrebbe verosilmente portare in tempi brevi a un deciso incremento della misura degli arresti domiciliari.

[133]E’ da rilevare che nel marzo 2018, la Corte Costituzionale ha posto fine al “disallineamento normativo” venutosi a determinare tra il limite quantitativo della pena previsto dall’art. 47, c. 3-bis ai fini della concessione del c.d. affidamento allargato (pena non superiore a quattro anni) e quello indicato dall’art. 656 c.p.p. ai fini della sospensione dell’ordine di esecuzione della pena (pena inferiore a tre anni). I giudici della Consulta hanno riconosciuto la “natura servente” dell’istituto della sospensione dell'ordine di esecuzione e la conseguente incoerenza normativa che si viene a creare allorquando si spezzi il filo che lega i due istituti. Secondo la Corte, omettendo di modificare l’art. 656, c. 5, c.p.p., così da renderlo corrispondente al termine di concessione dell’affidamento in prova allargato, il legislatore non è incorso in un mero difetto di coordinamento ma ha leso l’art. 3 Cost., poiché si è dato luogo a un trattamento normativo differenziato di situazioni da reputarsi uguali, quanto alla finalità intrinseca alla sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva e alle garanzie apprestate in ordine alle modalità di incisione della libertà personale del condannato. Per tale motivo, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’art. 656 c.p.p. costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui si prevede che il Pubblico ministero sospenda l’esecuzione della pena detentiva, anche se costituente residuo di maggiore pena, non superiore a tre anni, anziché a quattro anni. V. Corte Costituzionale, sentenza 2 marzo 2018, n. 41.

[134] Il riferimento è in particolare al Decreto legge 13 maggio 1991, n. 152, Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata, in GU n. 110, 13 maggio 1991.

[135] CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA, Parere ai sensi dell'art. 10 L. 24.3.1958, n. 195, sullo schema di decreto legislativo recante la riforma dell'ordinamento penitenziario, Delibera 14 febbraio 2018, reperibile su http://www.ristretti.it/commenti/2018/febbraio/pdf3/parere_csm.pdf, p. 6.

[136]In particolare, l’articolo 5, par. 1, lett. c), CEDU autorizza la privazione della libertà di un individuo affinché questi “sia tradotto dinanzi all’autorità giudiziaria competente, quando vi siano motivi plausibili di sospettare che egli abbia commesso un reato o vi siano motivi fondati di ritenere che sia necessario impedirgli di commettere un reato o di darsi alla fuga dopo averlo commesso”. Ai sensi dell’articolo 5, par. 2, CEDU, ogni persona arrestata deve essere informata, al più presto e in una lingua a lei comprensibile, dei motivi dell’arresto e di ogni accusa formulata a suo carico. V., ad esempio, Corte EDU, Fox, Campbell e Hartley c. Regno Unito, cit., par. 40.

[137]La Corte di Strasburgo non ha definito l’arco di tempo che deve intercorrere tra l’applicazione della misura restrittiva e la traduzione dinanzi all’organo giudiziario, dovendo questa valutazione operarsi alla luce delle circostanze del caso concreto (v., ad esempio, Corte EDU [GC], Labita c. Italia, cit., par. 152; Corte EDU [GC], Idalov c. Russia, cit., par. 139). Nel caso Döner la Corte ha accertato la violazione dell’art. 5, par. 3, CEDU, poiché i ricorrenti sono stati tradotti innanzi al giudice oltre quattro giorni dopo l’arresto (Corte EDU, Döner e altri c. Turchia, ricorso n. 29994/02, 7 marzo 2017). Invece, nel caso Kiril Zlatkov Nikolov la Corte ha escluso la violazione dell’art. 5, par. 3, CEDU, ritenendo che il ritardo di tre giorni e ventitrè ore con cui il ricorrente è stato tradotto dinanzi al giudice istruttore fosse giustificato dalle peculiarità del caso (Corte EDU, Kiril Zlatkov Nikolov c. Francia, ricorsi nn. 70474/11;68038/12, 10 novembre 2016). Nel caso Gaspar la Corte di Strasburgo non ha reputato eccessiva la durata della detenzione provvisoria, ritenendola giustificata sia dalla gravità del reato sia dal rischio di recidiva (Corte EDU, Gaspar c. Portogallo, ricorso n. 3155/15, 28 novembre 2017).

[138]Corte EDU [GC], Hood c. Regno Unito, ricorso n. 27267/95, 18 febbraio 1999, par. 60.

[139] V., ad esempio, Corte EDU, Clooth c. Belgio, ricorso n. 49/1990/240/311, 12 dicembre 1991, par. 44; Yagci e Sargin c. Turchia, ricorsi nn. 16419/90, 16426/90, 8 giugno 1995, par. 52; Smirnova c. Russia, ricorsi nn. 46133/99, 48183/99, 24 luglio 2003,  par. 63.

[140] V., ad esempio, Corte EDU, Letellier c. Francia, ricorso n. 12369/86, 26 giugno 1991, par. 35; Clooth c. Belgio, cit., par. 44; Tomasi c. Francia, ricorso n. 12850/87, 27 agosto 1992, par. 91; Muller c. Francia, ricorso n. 13/1996/632/816, 17 marzo 1997, par. 35; [GC], Labita c. Italia, cit., par. 152; Ilijkov c. Bulgaria, ricorso n. 33977/96, 26 luglio 2001, parr. 84-85; Michalko c. Slovacchia, ricorso n. 35377/05, 21 dicembre 2010, par. 145.

[141] V., ad esempio, Corte EDU, Ječius c. Lituania, ricorso n. 34578/97, 31 luglio 2000, par. 44; [GC], Idalov c. Russia, cit., par. 112.

[142] V., ad esempio, Corte EDU, Vaccaro c. Italia, ricorso n. 41852/98, 16 novembre 2000, par. 34.

[143] Corte EDU [GC], Labita c. Italia, cit.,par. 155. V. anche Corte EDU, Erdagöz c. Turchia, ricorso n. 127/1996/945/746, 22 ottobre 1997, par. 51; Fox, Campbell e Hartley c. Regno Unito, cit., par. 32.

[144]  V., ad esempio, Corte EDU [GC], Labita c. Italia, cit., par. 153; [GC], Idalov c. Russia, cit., par. 140. V. anche Corte EDU, I.A. c. Francia, ricorso n. 28213/95, 23 settembre 1988, par. 104; Muller c. Francia, cit., par. 44; PB c. Francia, ricorso n. 38781/97, 1° agosto 2000, par. 59; Ilijkov c. Bulgaria, ricorso n. 33977/96, 26 luglio 2001, par. 149; Sulaoja c. Estonia, ricorso n. 55939/00, 15 febbraio 2005, par. 64.

[145] V., ad esempio, Corte EDU, Luberti c. Italia, ricorso n. 9019/80, 23 febbraio 1984, par. 31; Van der Leer c. Paesi Bassi, ricorso n. 11509/85, 21 febbraio 1990, par. 35; [GC], Musiał c. Polonia, ricorso n. 24557/94, 25 marzo 1999, par. 43; Lietzow c. Germania, ricorso n. 24479/94, 13 febbraio 2001, par. 44; Mayzit c. Russia, ricorso n. 63378/00, 20 gennaio 2005, par. 49; Rapacciuolo c. Italia, ricorso n. 76024/01, 19 maggio 2005, par. 31; Fodale c. Italia, ricorso n. 70148/01, 1° giugno 2006, parr. 41-42; Michalko c. Slovacchia, cit., par. 43; K.C. c. Polonia, ricorso n. 31199/12, 25 novembre 2014, par. 82.

[146] Corte EDU, Fodale c. Italia, cit., par. 43.

[147] V., ad esempio, Corte EDU, Luberti c. Italia, cit., parr. 34-37: in questo caso, il Tribunale di sorveglianza di Roma ha declinato la propria competenza sul caso un anno e mezzo dopo la presentazione dell’istanza presentata dal soggetto; Corte EDU, Picaro c. Italia, ricorso n. 42644/02, 9 giugno 2005, parr. 65-71, in particolare par. 69: la Corte osserva che il soggetto è stato sottoposto a custodia cautelare per ventiquattro giorni e che la Corte di Cassazione ha impiegato cinque mesi e venti giorni per decidere e respingere l’istanza del ricorrente; Corte EDU, Marturana c. Italia, ricorso n. 63154/00, 4 marzo 2008, par. 112: il giudice di legittimità italiano ha deciso sui ricorsi a distanza di cinque e otto mesi dalla loro presentazione; Corte EDU, Rizzotto c. Italia, ricorso n. 15349/06, 24 aprile 2008, parr. 33-35: in questo caso sono trascorsi circa quattro mesi per la decisione sull’istanza di riesame della misura cautelare.

[148]  Corte EDU, Torreggiani e altri c. Italia, par. 94.

[149]Decreto legge 26 giugno 2014, n. 92, Disposizioni urgenti in materia di rimedi risarcitori in favore dei detenuti e degli internati che hanno subito un trattamento in violazione dell’articolo 3 CEDU, nonché di modifiche al codice di procedura penale e alle disposizioni di attuazione, all’ordinamento del Corpo di polizia penitenziaria e all’ordinamento penitenziario, anche minorile (GU n. 147, 27 giugno 2014), convertito con modificazioni dalla Legge 11 agosto 2014 n. 117, in GU n. 192, 20 agosto 2014. Novità importanti in materia erano già state introdotte dal Decreto legge 1° luglio 2013, n. 78, Disposizioni urgenti in materia di esecuzione della pena (GU n. 153, 2 luglio 2013), convertito con modificazioni dalla Legge 9 agosto 2013, n. 94, in GU n. 193, 19 agosto 2013.

[150]Legge 16 aprile 2015, n. 47, Modifiche al codice di procedura penale in materia di misure cautelari personali, in GU n. 94, 23 aprile 2015. Sull’argomento v. BORRELLI P., Una prima lettura delle novità della Legge 47 del 2015 in tema di misure cautelari personali, in Diritto penale contemporaneo, 3 giugno 2015, reperibile su https://www.penalecontemporaneo.it/d/3958-una-prima-lettura-delle-novita-della-legge-47-del-2015-in-tema-di-misure-cautelari-personali.

[151] Artt. 1 e 2 Legge 47/2015. Tutti i parametri normativi di cui all’art. 274 c.p.p. sono stati così conformati al requisito della “attualità” dell’esigenza cautelare già fissato con riferimento al “pericolo di inquinamento delle prove” (art. 274, lett. a), c.p.p.).

[152] Per una recente appplicazione dell’art. 274 c.p.p., v. Corte di Cassazione, V Sezione penale, sentenza 7 febbraio 2018, n. 5821.

[153] PETRUCCI L.-VASATURO G., La riforma delle misure cautelari personali: le novità introdotte dalla legge n. 47/2015, reperibile su http://www.gazzettaamministrativa.it/servizicu/bancadatigari/viewnews/3cc1b541-056d-11e5-b9c2-5b005dcc639c.

[154] V. Decreto legge 13 maggio 1991, n. 152 (art. 5) e Decreto legge 9 settembre 1991, n. 292; Decreto legge 23 febbraio 2009, n. 11, adottato pochi mesi prima della sentenza Sulejmanovic della Corte europea dei diritti umani. Per approfondimenti, TODARO G., Custodia cautelare e presunzioni, reperibile su http://ojs.uniurb.it/index.php/studi-A/article/viewFile/413/398, p. 36.

[155]V. le sentenze della Corte Costituzionale sull’art. 273, co. 3, c.p.p.: 21 luglio 2010, n. 265; 12 maggio 2011, n. 164; 22 luglio 2011, n. 231; 3 maggio 2012, n. 110; 22 luglio 2011, n. 232; 29 marzo 2013, n. 57; 23 luglio 2013, n. 232. Per approfondimenti, si rinvia a TODARO G., Custodia cautelare e presunzioni, cit., p. 44 ss.

[156] Art. 4 Legge 47/2015.

[157]V. Corte Costituzionale, ordinanza 24 ottobre 1995, n. 450; Corte EDU, Pantano c. Italia, ricorso n. 60851/00, 6 novembre 2003.

[158] Art. 3 Legge 47/2015.

[159] Artt. 5 e 6 Legge 47/2015.

[160] Art. 8 Legge 47/2015. Parallelamente, la Legge del 2015 ha modificato in modo consistente l’art. 309 c.p.p. (art. 11 Legge 47/2015). Nella specie si dispone: che “il tribunale annulla il provvedimento impugnato se la motivazione manca o non contiene l’autonoma valutazione, a norma dell’art. 292, delle esigenze cautelari, degli indizi e degli elementi forniti dalla difesa”; che l’imputato che fa esplicita richiesta ha diritto di comparire personalmente all’udienza camerale in cui si discuterà della misura cautelare a suo carico; che l’imputato può chiedere entro due giorni dalla notificazione dell’avviso, un differimento della data dell’udienza del riesame, “da un minimo di cinque ad un massimo di dieci giorni se vi siano giustificati motivi”. Soprattutto, il nuovo art. 309 c.p.p. pone dei vincoli perentori per contenere entro tempi certi e prestabiliti l’iter del riesame della misura cautelare personale, stabilendo i casi in cui il mancato rispetto dei tempi determina, salvo eccezioni, la perdita di efficacia della misura cautelare e le ipotesi in cui la suddetta misura decade inesorabilmente senza poter essere rinnovata.

[161] SANTORO G., La legislazione ed i numeri della detenzione cautelare, in ANTIGONE (a cura di), Torna il carcere, XIII Rapporto, maggio 2017, reperibile su http://www.antigone.it/tredicesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione/01-custodia-cautelare/.

[162]Ibidem.

[163]Gli stranieri sono normalmente esclusi dall’applicazione di misure alternative al carcere giacché la loro concessione postula la sussistenza in capo al soggetto beneficiario di alcuni requisiti di cui gli stranieri sono spesso sprovvisti (dimora stabile, nucleo familiare, lavoro).

[164]Le prime sentenze contro l’Italia riguardanti la violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU risalgono agli anni Ottanta (v., ad esempio, Corte EDU, Scuderi c. Italia, ricorso n. 12986/87, 24 agosto 1993; Capuano c. Italia, ricorso n. 9381/81; Foti e altri c. Italia, ricorsi nn. 7604/76; 7719/76; 7781/77; 7913/77, 10 dicembre 1982). Il problema della durata eccessiva dei processi si è palesato in tutta la sua gravità nel 1999. Con la sentenza della Grande Camera, nel caso Bottazzi, la Corte ha affermato: “The frequency with which violations are found shows that there is an accumulation of identical breaches which are sufficiently numerous to amount not merely to isolated incidents. Such breaches reflect a continuing situation that has not yet been remedied and in respect of which litigants have no domestic remedy. This accumulation of breaches accordingly constitutes a practice that is incompatible with the Convention” (Corte EDU [GC],Bottazzi c. Italia, ricorso n. 34884/98, 28  luglio 1999, par. 22). V. anche Corte EDU, A.P. c. Italia, ricorso n. 35265/97, 28 luglio 1999, par. 18; Rando c. Italia, ricorso n. 38498/97, 28 luglio 1999, par. 19.

Al fine di arginare il numero di condanne provenienti dalla Corte di Strasburgo, il legislatore ha introdotto la Legge n. 89 del 2001 (Legge Pinto) che ha introdotto un procedimento ad hoc finalizzato ad ottenere un equo indennizzo per il danno patrimoniale e/o morale derivante dal mancato rispetto del termine di ragionevole durata del giudizio. Il Decreto legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito in Legge 7 agosto 2012, n. 134, ha modificato estensivamente la Legge Pinto sotto il profilo procedurale e sostanziale. Il termine massimo di durata ragionevole è fissato dalla Legge Pinto in tre anni per il primo grado, due anni per il secondo grado e un anno per il giudizio di legittimità. E’ noto però che i tempi della giustizia processuale sono notevolmente più lunghi. 

[165]I detenuti sono divisi in tre circuiti penitenziari, strutturati tenendo conto delle esigenze di sicurezza e degli obiettivi trattamentali: un primo livello (alta sicurezza), in cui si trovano i detenuti che presentano un elevato grado di pericolosità per tipologia di reato commesso); un secondo livello (media sicurezza); un terzo livello (sicurezza attenuata), previsto per i tossicodipendenti e le madri detenute con prole. V. DIPARTIMENTO DELL’AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA, Circolare DAP del 21 aprile 1993, n. 3359/5808.

[166]DIPARTIMENTO DELL’AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA, Circolare DAP del 25 novembre 2011, n. 445732.

[167] Corte EDU [GC], Muršič c. Croazia, cit., par. 138.

[168]DIPARTIMENTO DELL’AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA, Circolare DAP del 14 luglio 2013, n. 251644, Linee guida sulla sorveglianza dinamica; Circolare DAP del 23 ottobre 2015, n. 3663/6112, Modalità di esecuzione della pena. A livello internazionale, v. le UN Mandela Rules del 2015 (in particolare Regole 76 e 86); v. anche UNODC, Handbook on Dynamic Security and Prison Intelligence, in Criminal Justice Handbook Series, 7. Nell’ambito del Consiglio d’Europa, v. le Regole penitenziarie europee del 2006 (in particolare Regola 51).

[169] L’Autorità, composta di tre personalità (un presidente e due membri), rimane in ufficio per cinque anni. L’ufficio è nominato con Decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Consiglio dei ministri. Il Garante Mauro Palma è stato nominato nel mese di febbraio 2016 e ha iniziato i propri lavori nel marzo dello stesso anno.

[170] CPT, Report to the Italian Government on the visit to Italy, cit., p. 28, parr. 40-41.

[171] MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, Attività trattamentali-Percorsi d'istruzione – Anno 2016-2017, 30 giugno 2017, reperibile su https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14_1.page?facetNode_1=0_2&facetNode_2=0_2_6&facetNode_3=0_2_6_5&facetNode_4=1_5_36&contentId=SST49720&previsiousPage=mg_1_14.

[172] MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, Corsi Professionali Serie Storica – Anni 1992-2017, 31 dicembre 2017, reperibile su  https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14_1.page?facetNode_1=0_2&facetNode_2=0_2_6&facetNode_3=0_2_6_5&contentId=SST614867&previsiousPage=mg_1_14.

[173] MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, Detenuti Lavoranti Serie Storica – Anni 1991-2017, 31 dicembre 2017, reperibile su https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14_1.page?facetNode_1=0_2&facetNode_2=0_2_6&facetNode_3=0_2_6_11&contentId=SST168616&previsiousPage=mg_1_14.

[174]Ibidem.

[175]BRIOSCHI F., Le risorse destinate al reinserimento nella società del condannato, in ANTIGONE (a cura di), Torna il carcere, cit., reperibile su http://www.antigone.it/tredicesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione/01-costi-del-carcere/.

[176]Il 90% del personale è costituito da personale di custodia (contro una media europea è del 68,6%). Criminologi e psicologi sono lo 0,1% (la media europea è del 2,2%), mentre il personale medico e paramedico è lo 0,2% (a fronte di media europea del 4,3%). Per approfondimenti, v. SCANDURRA A., Il ritorno del sovraffollamento, in ANTIGONE (a cura di), Torna il carcere, cit., reperibile su http://www.antigone.it/tredicesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione/01-numeri-del-carcere/.

[177] BRIOSCHI F., Le risorse destinate al reinserimento, cit.

[178]Corte Costituazione, sentenza 1966, n. 12, considerato in diritto.

[179] Corte Costituzionale, sentenza 1979, n. 114, par. 4 del considerato in diritto.

[180] Corte Costituzionale, sentenza 1993, n. 349 par. 4.2 del considerato in diritto.

[181] Corte Costituzionale, sentenza 9 ottobre 2013, n. 279, par. 7 del considerato in diritto.

[182]Corte costituzionale, sentenza 1990, n. 313, par. 8 del considerato in diritto.