A CURA DI

AVV. ANTONELLA ROBERTI

CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA: IL RICORSO ABUSIVO AI CONTRATTI A TEMPO DETERMINATO NEL SETTORE PUBBLICO. I PRINCIPI DI EQUIVALENZA E DI EFFETTIVITÀ (CGUE 7 MARZO 2018, C-494/16).

 Autore: Avv. Teresa Aloi

 

La domanda di pronuncia pregiudiziale sottoposta all’attenzione della Corte di Giustizia dell’Unione europea nella causa C-494/16, verte sull’interpretazione della clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che figura in allegato alla Direttiva 1999/70/CE del Consiglio del 28 giugno 1999, relativo all’accordo quadro CES, UNICE, e CEEP sul lavoro a tempo determinato.

L’accordo quadro ha l’obiettivo, da un lato, di migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo il rispetto del principio di non discriminazione e, dall’altro, di creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato.

La clausola 5 dello stesso, intitolata “Misure di prevenzione degli abusi”, stabilisce che per prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali a norma delle leggi, dei contratti collettivi e della prassi nazionale, e/o le parti sociali stesse, dovranno introdurre, in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi ed in un modo che tenga conto delle esigenze di settori e/o categorie specifici di lavoratori, una o più misure relative a: a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti; b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi; c) il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti.

Gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali, e/o le parti sociali stesse dovranno, se del caso, stabilire a quali condizioni i contratti ed i rapporti di lavoro a tempo determinato devono essere considerati “successivi” e devono essere ritenuti contratti o rapporti a tempo indeterminato.

La domanda di pronuncia pregiudiziale che ha determinato la sentenza della CGUE 7 marzo 2018, in commento, è stata presentata nel quadro della controversia tra una cittadina italiana, la Sig.ra G. Santoro ed il comune di Valderice (Italia) in merito alle conseguenze da trarre da una successione di contratti di lavoro a tempo determinato conclusi tra l’interessata e detto comune.

La Sig.ra Santoro dal 1996 al 2002 aveva prestato attività lavorativa, come lavoratore socialmente utile, in favore del comune di Valderice e, poi, era stata impiegata presso lo stesso con contratto di collaborazione coordinata e continuativa fino al 2010. In questo stesso anno aveva stipulato con lo stesso ente locale un contratto di lavoro subordinato a tempo parziale, con scadenza al 31 dicembre 2012. Tale contratto era stato prorogato per tre volte, fino al 31 dicembre 2016, ossia per una durata complessiva di quattro anni.

La Signora propone ricorso davanti al Tribunale di Trapani chiedendo, in particolare, l’accertamento del carattere abusivo di detti contratti a tempo determinato, la condanna del comune di Valderice a risarcire il danno sofferto in forma specifica, la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato e, in subordine, la condanna del comune a concederle un risarcimento del danno in forma monetaria retribuendola e trattandola, sotto il profilo giuridico, in modo identico ad un lavoratore a tempo indeterminato dello stesso comune avente la stessa anzianità di servizio.

In conformità all’art. 36, comma 5, del D.Lgs. n. 165/2001, la violazione, da parte della pubblica amministrazione, del divieto di concludere reiteratamente un contratto di lavoro a tempo determinato non può dar luogo alla trasformazione di detto contratto in un contratto a tempo indeterminato. Di conseguenza, un lavoratore, quale la Signora Santoro, può esigere unicamente il risarcimento del danno subìto, il quale sarebbe limitato, ai sensi dell’art. 32, comma 5, della Legge n. 183/2010, al pagamento di un’indennità onnicomprensiva in misura compresa tra 2,5 e 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita. Inoltre, secondo la giurisprudenza della Corte Suprema di Cassazione, il lavoratore può chiedere il risarcimento del danno derivante dalla perdita di opportunità di impiego. Nella sentenza del 15 marzo 2016 (n. 5072/2016) la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, ha giudicato che, in caso di ricorso a contratti a tempo determinato da parte di una P. A., ricorso illegale ai sensi dell’art. 36, comma 1, del D.Lgs. n. 165/2001, a parte le procedure dirette a sanzionare i dirigenti responsabili, è unicamente previsto che il lavoratore danneggiato abbia diritto, oltre all’indennità forfettaria, ad un risarcimento del danno collegato alla “perdita di chance”. Quest’ultimo deriverebbe dal fatto che l’impiego a tempo determinato può aver fatto perdere al lavoratore altre occasioni di lavoro stabile. In tale sentenza, inoltre, la Suprema Corte dispone che in materia di pubblico impiego privatizzato, nell’ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine, la misura risarcitoria prevista dall’art. 36, comma 5, del D.Lgs. n. 165/2001, va interpretata in conformità al canone di effettività della tutela affermato dalla Corte di Giustizia UE (ordinanza 12 dicembre 2013, C-50/13), per cui, mentre va escluso, in quanto incongruo, il ricorso ai criteri previsti per il licenziamento illegittimo, può farsi riferimento alla fattispecie omogenea di cui all’art. 32, comma 5, della legge n. 183/2010, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come “danno comunitario”, determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto, atteso che, per il primo, l’indennità forfetizzata limita il danno risarcibile, per il secondo, invece, agevola l’onere probatorio del danno subìto.

L’ordinanza con cui il Tribunale di Trapani, investito del ricorso proposto, dispone la rimessione alla Corte di Giustizia UE delle questioni di interpretazione, inserisce la soluzione adottata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nel quadro normativo italiano e lo sottopone alla valutazione di conformità della CGUE ritenendolo inadeguato a soddisfare, nel rispetto dei principi comunitari di equivalenza e di effettività, le prescrizioni più volte adottate dalla Corte stessa.

Secondo l’ordinanza due sole sono le alternative di soluzione adeguata adottabile dal giudice italiano.

Una, la disapplicazione dell’art. 36 del D.Lgs. n. 165/2001 e dell’art. 97 della Costituzione che impone alle pubbliche amministrazioni di assumere personale solo a seguito di concorso, e conseguente trasformazione del rapporto. L’altra, è quella di “forzare” la nozione di risarcimento del danno ed attribuire al lavoratore pubblico, senza prova di alcuna deminutio, il valore economico del posto di lavoro negatogli.

Il Tribunale di Trapani, pertanto, sottopone alla Corte di Giustizia UE le seguenti questioni, esaminate congiuntamente, se la clausola 5 dell’accordo quadro debba essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa nazionale che non sanziona il ricorso abusivo, da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico, ad una successione di contratti a tempo determinato mediante il versamento, al lavoratore interessato, di un’indennità volta a compensare la mancata trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto a tempo indeterminato, bensì preveda la concessione di un’indennità compresa tra 2,5 e 12 mensilità dell’ultima retribuzione di detto lavoratore, accompagnata dalla possibilità, per quest’ultimo, di ottenere il risarcimento integrale del danno dimostrando la perdita di opportunità di trovare un impiego o il fatto che, qualora un concorso fosse stato organizzato in modo regolare, egli lo avrebbe superato.

La clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro, mira ad attuare uno degli obiettivi perseguiti dallo stesso, limitare il ricorso ad una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, considerato come una potenziale fonte di abuso a danno dei lavoratori, prevedendo un certo numero di disposizioni di tutela minima tese ad evitare la precarizzazione dei lavoratori dipendenti. Tale clausola, infatti, impone agli Stati membri, l’adozione di almeno una delle misure che essa elenca, quando il loro diritto interno non contiene rimedi di legge equivalenti. Le misure indicate attengono, rispettivamente, a ragioni obiettive che giustificano il rinnovo di tali contratti o rapporti di lavoro, alla durata massima totale degli stessi contratti o rapporti di lavoro successivi ed al numero dei rinnovi di questi ultimi. In tal modo la clausola 5, punto 1, fissa agli Stati membri un obiettivo generale, consistente nella prevenzione di abusi, lasciando loro nello stesso tempo la scelta dei mezzi per conseguirlo, purchè essi non rimettano in discussione l’obiettivo o l’efficacia pratica dell’accordo quadro. Inoltre, come nel caso di specie, il diritto dell’Unione non prevede sanzioni specifiche nel caso in cui vengano accertati abusi, per cui spetta alle autorità nazionali adottare misure che devono rivestire un carattere non solo proporzionato, ma anche sufficientemente energico e dissuasivo per garantire la piena efficacia delle norme adottate in applicazione dell’accordo quadro.

Seppure in mancanza di una disciplina dell’Unione in materia, le modalità di applicazione di tali norme spettino all’ordinamento giuridico interno degli Stati membri, in forza del principio dell’autonomia procedurale di quest’ultimi, esse non devono essere, però, meno favorevoli di quelle che riguardano situazioni analoghe di natura interna (principio di equivalenza[1]) né rendere in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione (principio di effettività[2]). Ciascun caso in cui si pone la questione dell’effettività di una norma processuale nazionale deve essere esaminato tenendo conto del ruolo di detta norma nell’insieme del procedimento, del suo svolgimento e delle sue peculiarità dinanzi ai vari organi giurisdizionali nazionali. Spetta, inoltre, ai giudici nazionali interpretare le modalità procedurali applicabili ai ricorsi di cui possono ricevere un’applicazione che contribuisca al perseguimento dell’obiettivo di garantire una tutela giurisdizionale effettiva dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto comunitario (CGUE 13 marzo 2007, C-432/05).

Da ciò discende che, quando si sia verificato un ricorso abusivo ad una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato, deve essere possibile applicare una misura dotata di garanzie effettive ed equivalenti di protezione dei lavoratori per punire debitamente tale abuso e cancellare le conseguenze della violazione del diritto dell’Unione.

La clausola 5 dell’accordo quadro non impedisce che uno Stato membro riservi un destino diverso al ricorso abusivo a contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione, a secondo che essi siano stati conclusi con un datore di lavoro appartenente al settore privato o con un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico (CGUE 7 settembre 2006, Marrosu 3 Sardino, C-53/04).

Affinchè una normativa nazionale, come quella controversa nel procedimento principale, che vieta, nel solo settore pubblico, la trasformazione in contratto di lavoro a tempo indeterminato di una successione di contratti a tempo determinato, possa essere considerata conforme all’accordo quadro, l’ordinamento giuridico interno dello Stato membro interessato deve prevedere in tale settore un’altra misura effettiva destinata ad evitare e, se del caso, a sanzionare l’utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo determinato. Ciò posto, occorre verificare se le disposizioni nazionali in questione nel procedimento principale rispettino i principi di equivalenza e di effettività.

Per quanto riguarda il principio di equivalenza è necessario ricordare che da esso discende che i soggetti che fanno valere i diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione non devono essere svantaggiati rispetto a quelli che fanno valere diritti di natura meramente interna.

Analogamente alle misure adottate dal legislatore nazionale al fine di sanzionare l’uso abusivo dei contratti a tempo determinato da parte dei datori di lavoro del settore pubblico, quelle adottate da detto legislatore per sanzionare l’uso abusivo di tali tipi di contratto nel settore privato attuano il diritto dell’Unione. Pertanto, secondo la CGUE non sussistono elementi che possano far dubitare della compatibilità delle disposizioni in questione nel procedimento principale con il principio di equivalenza.

La Corte europea torna a ripetere quanto affermato in tutte le precedenti sentenze in materia (CGUE 7 settembre 2006, Marrosu e Sordino, C-53/04), cioè, che la clausola 5 dell’accordo quadro, non impedisce che uno Stato membro riservi una sorte diversa al ricorso abusivo a contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione, a seconda che essi siano stati conclusi con un datore di lavoro appartenente al settore privato o appartenente al settore pubblico.

Per quanto riguarda il principio di effettività, dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE si ricava che, al fine di accertare se una norma processuale nazionale renda praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti ai soggetti dell’ordinamento dal diritto dell’Unione, si deve tenere conto del ruolo di questa norma nell’insieme del procedimento, oltre che dello svolgimento e delle peculiarità dello stesso davanti ai vari organi giurisdizionali nazionali. Sotto tale profilo, si devono prendere in considerazione, se necessario, i principi che sono alla base del sistema giurisdizionale nazionale, quali la tutela dei diritti della difesa, il principio della certezza del diritto ed il regolare svolgimento del procedimento (CGUE 21 febbraio 2008, Tele2 Telecomunication, C-426/05).

La CGUE ribadisce che non è suo compito, nell’ambito di un rinvio pregiudiziale, pronunciarsi sull’interpretazione del diritto interno, compito che compete esclusivamente al giudice del rinvio, ma al più fornisce, ove necessario, precisazioni dirette a guidare il giudice nazionale nella sua valutazione.

Nel contesto delle precisazioni che essa fornisce, pur valorizzando l’apparato sanzionatorio previsto dall’art. 36 del D.Lgs. n. 165/2001 a carico dei dirigenti “autori” dell’illecito, inserisce il riferimento al ruolo che può rivestire, nell’apprezzamento della idoneità dei rimedi adottati dallo Stato membro a soddisfare il principio di effettività, la utilizzabilità di “presunzioni dirette a garantire ad un lavoratore, che abbia sofferto a causa dell’uso abusivo di contratti a tempo determinato stipulati in successione una perdita di opportunità di lavoro, la possibilità di conciliare le conseguenze del pregiudizio subìto”.

La Corte di Giustizia UE  si chiede, quindi, se i lavoratori del settore pubblico debbano godere, oltre all’indennità forfettaria prevista dall’art. 32, comma 5, Legge n. 183/2010, di un provvedimento meno favorevole di quello di cui godono i lavoratori del settore privato, consistente in un’indennità diretta a compensare la mancata trasformazione del rapporto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato. Sul punto afferma che, gli Stati membri non sono tenuti, alla luce della clausola 5 dell’accordo quadro, a prevedere tale trasformazione. Di conseguenza, non può nemmeno essere loro imposto di concedere, in assenza di ciò, un’indennità destinata a compensare la mancanza di una tale trasformazione del contratto.

La circostanza che il provvedimento adottato dal legislatore nazionale per sanzionare l’uso abusivo di contratti a tempo determinato da parte dei datori di lavoro del settore privato costituisca la tutela più ampia che possa essere riconosciuta ad un lavoratore non può, di per sé, avere come conseguenza quella di attenuare il carattere effettivo delle misure nazionali applicabili ai lavoratori rientranti nel settore pubblico.

Dal fascicolo a disposizione della Corte si evince che la normativa nazionale prevede altre misure destinate a prevenire e sanzionare il ricorso abusivo a contratti a tempo determinato. L’art. 36, comma 5, del D.Lgs. n. 165/2001, dispone infatti che, le amministrazioni sono tenute a recuperare, nei confronti dei dirigenti responsabili, le somme pagate ai lavoratori a titolo di risarcimento del danno sofferto a causa della violazione delle disposizioni relative al reclutamento o all’impiego, quando questa violazione sia dovuta a dolo o colpa grave. Tale violazione dovrebbe essere presa in considerazione ai fini della valutazione dell’operato di tali dirigenti i quali, di conseguenza, non potrebbero ottenere un premio di risultato. Inoltre, l’art. 36, comma 6, di tale decreto legislativo prevede che le amministrazioni pubbliche che abbiano agito in violazione delle norme relative al reclutamento o all’impiego non possono procedere, a nessun titolo, ad assunzioni nei tre anni successivi a detta violazione.

Spetta al giudice nazionale verificare se tali elementi, vertenti sulle sanzioni che possono essere pronunciate nei confronti delle pubbliche amministrazioni e dei loro dirigenti in caso di ricorso abusivo a contratti a tempo determinato, rivestano un carattere effettivo e dissuasivo tale da garantire la piena efficacia delle norme adottate in applicazione dell’accordo quadro.

Alla luce delle considerazioni svolte, a giudizio della Corte di Giustizia dell’Unione europea, la clausola 5 dell’accordo quadro deve essere interpretata nel senso che essa non osta ad una normativa nazionale che, da un lato, non sanziona il ricorso abusivo, da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico, ad una successione di contratti a tempo determinato mediante il versamento, al lavoratore interessato, di un’indennità volta a compensare la mancata trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto a tempo indeterminato bensì, dall’altro, preveda la concessione di un’indennità compresa tra 2,5 e 12 mensilità dell’ultima retribuzione percepita dal lavoratore, accompagnata dalla possibilità, per quest’ultimo, di ottenere il risarcimento integrale del danno, dimostrando, mediante presunzioni, la perdita di opportunità di trovare un impiego o il fatto che, qualora un concorso fosse stato organizzato in modo regolare, egli lo avrebbe superato, purchè una siffatta normativa sia accompagnata da un meccanismo sanzionatorio effettivo e dissuasivo, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare.

 

Avv. Teresa Aloi, Foro di Catanzaro

 

Fonte: www.curia.europa.eu

 

[1] Equivalenza significa che la tutela dei diritti attribuiti ai soggetti dal diritto comunitario non può essere inferiore, per efficacia, a quella garantita per la tutela dei diritti analoghi riconosciuti dal diritto interno. Elementi qualificanti del principio di equivalenza sono la ragionevole uguaglianza dei rimedi apprestati (per la tutela dei diritti di fonte comunitaria ed interna), quanto all’efficacia e la analogia delle fattispecie considerate. Ciò vale a dire che, anche nella prospettiva comunitaria, così come in quella interna a proposito del principio di uguaglianza il confronto va fatto tra casi simili, tenuto conto di oggetto ed elementi essenziali. Tra casi simili sono ammesse differenze di disciplina solo ove proporzionate e giustificate, dovendo il confronto avvenire tra il complesso della regolamentazione applicabile.

[2] Il principio di effettività in diritto è quel principio che prevede la concreta esecuzione di quanto stabilito dal diritto sostanziale, ovvero dalle norme che fanno parte dell’ordinamento. E’ il principio sul quale si basa la tutela dei diritti quando questa diviene efficace nel singolo caso concreto. Proprio per questa sua idoneità a garantire l’efficacia delle norme di diritto all’interno di un ordinamento giuridico, può essere considerato un parametro per valutare la validità di un determinato sistema legislativo.

Uno degli ambiti in cui si può rilevare facilmente l’importanza del principio di effettività è il diritto comunitario dove tale principio si è affermato in seguito ad una lenta evoluzione giurisprudenziale, non essendo espressamente codificato da alcuna norma del Trattato CE. Le norme che la Corte di Giustizia ha utilizzato come base normativa sono principalmente due: L’art. 10 T.C.E. che sancisce l’obbligo per gli Stati membri di adottare tutti i provvedimenti idonei a rendere effettiva l’applicazione del diritto comunitario, omettendo tutti quei comportamenti che possono esserne di ostacolo; l’art. 2 T.U.E. che, dopo aver elencato tutti gli obiettivi dell’Unione europea, nell’ultimo comma dichiara che l’Unione europea si impegna a raggiungere tali obiettivi nel rispetto del principio di sussidiarietà, vale a dire quel principio secondo cui l’intervento dell’UE è subordinato all’impossibilità degli Stati membri di intervenire per mezzo dei loro strumenti nazionali.